Nicola Lisi
Nicola Lisi nasce a Scarperia, l’11 aprile 1893, dove conduce gli studi primari sino al trasferimento a Firenze; qui consegue il diploma di perito agrimensore e ottiene un incarico presso l’ufficio tecnico della Provincia. Tra il 1916 e il 1918 partecipa alla Prima Guerra Mondiale, combattendo in Friuli. Al suo ritorno a Firenze frequenta l’ambiente dei caffè letterari, primo fra tutti quello delle Giubbe Rosse, dove si lega a figure di spicco come Rosai e Palazzeschi. Con Bargellini e Betocchi pubblica nel 1923 il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari e fonda nel 1929 la rivista «Il Frontespizio»: entrambe le esperienze sono segnate da un forte spiritualismo cattolico, che rimane la costante della variegata produzione di Lisi. Negli ultimi anni cura in prima persona la raccolta delle sue opere, pubblicata, postuma, da Vallecchi. Muore a Firenze il 24 novembre 1975.
La produzione lisiana si muove dall’opera teatrale (L’acqua, 1928; La via della Croce, 1953; Aspettare in pace, 1957), al racconto breve (Favole, 1933; La nuova Tebaide, 1950; La faccia della terra; 1959; La mano del tempo,1965), al romanzo (Il paese dell’anima, 1934; Diario di un parroco di campagna, 1942), al diario-memoriale (Amore e desolazione. Diario 1° gennaio – 31 luglio 1944, 1946; La parlata dalla finestra di casa, 1973), alla poesia (Aria su le quattro corde, 1930).
La fede cristiana, vissuta in maniera totalizzante, senza dubbi o incertezze, rappresenta la solida base della poetica di Lisi: essa è fondata sulla profonda fiducia nella Provvidenza divina, sul sincero amore per le creature e la natura e sul rispetto per il mistero che avvolge la vita umana, in un’ottica lontana da angosce esistenzialiste. La religiosità di Lisi è intrisa di positività e non concede spazio a raffigurazioni disperanti del male o a immagini plumbee del dolore. Nella prosa di Lisi il dolore e il male sono presenti e intuibili, così come il peccato, solo in filigrana. Non vi sono mai, infatti, insegnamenti o morali: ogni esperienza è raccontata in relazione all’interiorità del narratore, come immagine del divino, e la quotidianità è velata da una sorta di trascendenza sospesa sul reale. Nella sua opera più nota, Diario di un parroco di campagna, l’anziano parroco del paese annota i piccoli eventi di ogni giorno che, nella loro semplicità, appaiono miracolosi: la religiosità e la saggezza popolare segnano i confini di un universo poetico in cui la consapevolezza del proprio limite umano e la pace dell’aldilà fungono da cardine.

Nicola Lisi ritratto da Ottone Rosai, 1954 1955, olio su tela, Museo Novecento di Firenze
Nel testamento artistico e umano di Nicola, La parlata dalla finestra di casa, il narratore ricostruisce la propria esperienza in ordine non cronologico ma interiore: amici e conoscenti, dai celebri intellettuali fiorentini ai semplici contadini di Scarperia, sono raffigurati in un affresco corale, dipinti con gioia, secondo un modello pittorico che pone le fondamenta nell’opera di Giotto e di Beato Angelico, dichiarate fonti di ispirazione. La critica ha notato una vicinanza con la poetica del realismo magico, nel segno di un’attitudine a credere in presenze ultraterrene: la voce narrante delle opere lisiane è caratterizzata, infatti, da un animo contemplativo, candido e anacronistico nella propria fede, e rimane sempre fortemente connessa con il reale, lontana dal misticismo estatico. La casa di Ponzalla, a metà strada tra Scarperia e il Giogo, viene scelta da Lisi come rifugio meditativo e creativo: così, il Mugello e Scarperia, in particolare, percorrono l’intera produzione di Lisi e divengono veri e propri paesaggi idealizzati dell’anima, abitati da personaggi sia reali che immaginari; questi ultimi sono descritti, attraverso l’ironia e l’allegoria, come paradigmi di un mondo autentico nella sua antica ritualità e finiscono per disegnare uno spazio interiore affettivo e poetico. La prosa di Lisi è misurata ma immediata, caratterizzata da uno stile controllato ed essenziale, quasi una mimesi dell’ottica dei semplici e della natura toscana che essa tratteggia: una scrittura confessionale, intrisa di spiritualità intensa e meravigliata di fronte all’armonia del creato cristiano, in cui la figuralità del reale è la cifra distintiva.
Stella Fecchio