LUCO DI MUGELLO – Firenze ci è debitrice. Dei tortelli di patate, dell’acqua di cui si disseta, dei sogni di Dante, del rombo dei motori. E di due opere pittoriche che il mondo ci invidia.
I gialli e i rossi delle vesti dei protagonisti simulano una sorta di sipario su cui si staglia la figura del Cristo. Di faccia a chi osserva il calice dell’eucarestia. Non c’è violenza nella morte, solo il dolore della Vergine.
Di ben altro impatto la Pala di quell’eretico che fu Rosso Fiorentino. Correte al museo di Volterra e godetevi la sua Deposizione del Cristo morto, una delle dieci opere pittoriche che salverei alla fine del mondo. Oddio, anche lo Spedalingo non scherza. Basta rileggersi la storia dei rapporti tra committenza (il rettore dell’ospedale di Santa Maria Nova) ed esecutore: offese, accuse, mediazioni infinite. Quei santi sembravano diavoli. Scheletrici, ‘disperati e crudeli’ li definì da par suo il Vasari. Insomma, una rappresentazione blasfema che non poteva essere affissa nella sacrale maestà di Ognissanti. Fu così che il rettore la spedì, intorno al 1525, in una chiesetta di campagna, Grezzano appunto, dove è rimasta fino al 1900. I vecchi del posto la ricordano ancora, almeno nel racconto dei padri e dei nonni.
Si trattava di un quadro oltremodo prezioso dove alla serenità dei due angioletti intenti a leggere un libro si somma l’inquietudine in cui sono immerse le figure maggiori, San Girolamo più di ogni altro.
Il capolavoro di Andrea del Sarto rende ancor più preziosa la Galleria Palatina, la sacra rappresentazione di Rosso rende sublimi gli Uffizi.
Se da qui alla fine del secolo, anche per una sola giornata, la soprintendenza volesse restituircele, sapremmo bene cosa farne. Godercele come un DomPerignon Gold 2000 nei luoghi che le hanno mantenute al sicuro, proprio dove generazioni di contadini si inginocchiarono a pregare circonfusi da tanta bellezza.
Riccardo Nencini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 14 luglio 2019