Dottoresse Fontani, ma i giovani vanno dallo psicoterapeuta? Ho il privilegio e l’onore di continuare a lavorare con i giovani da quasi trenta anni; contrariamente a quanto accadeva in passato, soprattutto negli ultimi cinque anni, la richiesta di un percorso di psicoterapia da parte di ragazzi e ragazze, a partire all’incirca dai diciassette anni fino ad arrivare ai trenta, è cresciuta in modo significativo. Questi giovani sono in genere persone molto intelligenti, sensibili, con capacità introspettive notevoli, efficaci per svolgere un buon lavoro analitico.
Che cambiamenti noti negli ultimi anni? In passato i giovani che iniziavano un percorso di psicoterapia non erano particolarmente motivati, ma spesso spinti dai genitori preoccupati del disagio che i figli vivevano, proiettando quasi esclusivamente su di loro la responsabilità del loro malessere. Adesso si è creata un’alleanza positiva fra il giovane e la famiglia stessa che è pronta a coinvolgersi, mettendosi in gioco e in discussione; il disagio del figlio, nel caso in cui entrambi lo desiderino, diventa spesso una questione che riguarda l’intero nucleo familiare, in senso sistemico relazionale. Per fare un esempio, in caso di attacco di panico del figlio esso non è considerato solo
come un fatto che riguarda esclusivamente il giovane, ma diventa lo strumento di riflessione e di crescita per tutta la famiglia. Il sintomo è infatti il campanello d’allarme che invita il soggetto e i membri che compongono il nucleo familiare a rivisitare la loro storia e ciò che essi stanno vivendo.
Quali le sofferenze frequenti? Il disagio si esprime in genere attraverso un sintomo che causa dolore fisico e sofferenza psichica, limitando la qualità della vita del soggetto oltre che le sue relazioni: sintomi di ansia acuta, generalizzata, attacchi di
panico con evitamento delle situazioni, luoghi, o altro che hanno scatenato il sintomo, disturbi gastrointestinali, insonnia, disturbi alimentari, tendenza all’ipocondria. Con molta disinvoltura e leggerezza essi a volte richiedono ricoveri al pronto soccorso o analisi cliniche eccessivamente invasive. Le ragazze sono in genere maggiormente inclini ad accogliere il disagio che si può presentare sottoforma di un’inquietudine e irritabilità generalizzata, senza una causa apparentemente plausibile; i ragazzi, (apparentemente) più pragmatici, accusano disturbi fisici più circoscritti al corpo. E’ comunque interessante notare, rispetto a quanto avveniva in passato, l’incremento della richiesta maschile di una psicoterapia, soprattutto dai venti ai venticinque anni.
Parli di “individualismo autoreferenziale”… Ostacolo alla piena espressione di un amore maturo e appagante è rappresentato dall’incapacità di concepire questo sentimento come dono completo di sé all’altro, attraverso cui è possibile trovare se stessi, riconoscersi come “persona”, cioè un essere in relazione autentica con l’altro. Quando ciò accade reciprocamente l’amore raggiunge la sua vetta più alta. Essere “per-dono”. Questo è l’opposto di un atteggiamento individualistico per cui tutto ciò che accade deve “ruotare” intorno a sé, sentimenti compresi. Il dono di sé all’altro che si ama non è possibile “riprenderselo” e per questo motivo è un atto estremamente serio, che necessita riflessione, ma che si esprime attraverso la gioia di essere insieme all’altro, inseriti in una progettualità per la vita. Corpo e anima insieme.
E adesso che fare? La società in cui viviamo, separante e divorziante, come afferma Z.Bauman, non favorisce la crescita di un amore maturo, ma piuttosto di un individualismo sempre più sfrenato, (Imagine you can…all around you). Un’inversione a U completa, come sarebbe utopicamente auspicabile, attualmente è impensabile. Si tratta piuttosto di proteggere e dare valore a tutto ciò che veramente conta nella vita e che emerge soprattutto attraverso un attento ascolto di sé: l’amore, la solidarietà, l’amicizia, la compassione che permette di vedere nell’altro un simile da ascoltare e aiutare e non un intralcio. Amare, come scriveva Fromm quasi un secolo fa, è un’ indole della persona: non dipende tanto dall’oggetto d’amore, ma dal suo sguardo sul mondo… se amo, lo esprimo verso tutta la realtà che mi circonda e non solo verso di lui o lei.
Bisogna riconoscere che anche il concetto di famiglia è diventato parecchio liquido e frastagliato… Sì, purtroppo la famiglia oggi vive un enorme disagio, attraversando una fase di profonda transizione i cui orizzonti sono fin troppo sfumati; infatti non si parla più di famiglia, intesa come nucleo formato da un uomo, una donna ed eventuali figli, ma di varie tipologie di famiglie, espressioni di una variegata pluralità di visioni dell’uomo. Ciò sicuramente ha generato smarrimento emotivo e timore.
Fiduciosa o pessimista, sul futuro delle relazioni affettive fra i giovani del terzo millennio? Mi ritengo fondamentalmente fiduciosa sul futuro dei nostri giovani. Nonostante i dubbi, le contraddizioni, i tanti meccanismi di difesa messi in atto per nascondere i loro sentimenti più profondi, essi tuttavia nutrono il bisogno di vivere un’affettività sana, autentica. La sofferenza esistenziale che esprimono spesso e che emerge in psicoterapia ne è la dimostrazione più convincente. Per quanto riguarda l’amore i giovani anelano segretamente a vivere un “per sempre” che dia senso al loro essere al mondo, ma ciò è da essi stessi negato a causa anche dei pressanti messaggi sublimali, figli legittimi di un velato, quanto potente, diktat socioeconomico (oltre che culturale) che valorizza invece l’individuo che produce, consuma, usa e getta per usare altrove e di nuovo “buttar via”; gli oggetti come le persone. L’amore rema contro, non “fa girare l’economia” e i mercati finanziari come invece l’industria dei divorzi, la seduzione di un apparire fine a se stesso, sempre più tesa a dimostrare di valere e di contare più degli altri. Imparare ad amare è per tutti difficile, bisogna saper rinunciare ad una parte di noi che invece preme per realizzarsi al massimo, perché tutto deve muoversi intorno alla persona stessa (all around you). Ecco quindi che gli affetti e le persone diventano strumentali ad una gratificazione che non può conoscere sforzo, sofferenza, rinuncia. Si concepisce l’amore come ricevere, prendere e non come dono di sé all’altro (attraverso cui io incontro me stesso, la mia essenza). L’altro è funzionale a un mio bisogno di appagamento: quando ciò viene meno non subentra uno sforzo per superare questo disagio: si preferisce rivolgersi altrove.
In questo quadro desolante come è possibile rimanere fiduciosi nel potere dell’amore con la A maiuscola? Perché constato, soprattutto grazie al mio lavoro, che quanto appena descritto non è fonte di appagamento, ma di profonda tristezza, solitudine, svalorizzazione di sé. A mio avviso ciò che manca e da cui è necessario partire è il dare valore a ciò che profondamente si sente (non certo le farfalle nello stomaco, ma arrivando alle radici del proprio essere), non allineandoci a un pensiero sempre più “unico” che tende a “robotizzare” la mente e il cuore dell’uomo rendendolo sempre più homo faber.
“La bellezza salverà il mondo”: essa riguarda l’essere umano in tutta la sua straordinaria complessità e soprattutto nella sua capacità di “sentire”, “intuire” dove veramente sta il suo bene.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 7 novembre 2021