FIRENZUOLA – Un piccolo libro di agile lettura, ma meritevole di più che un’occhiata. Scritto da Primo Vanni, “nato nel comune di Firenzuola, in provincia di Firenze, il 19 dicembre 1921, nella parrocchia che si chiamava Frena, nelle Casette di Tiara, a metà tra il comune di Firenzuola e il comune di Palazzuolo sul Senio”. Primo fu soprannominato Raccino, dal nome della sua casa natale chiamata La Raccia, che, secondo lui, deriverebbe dal fatto che “c’era un’aia da battere il grano poco bona“ e che quindi venne chiamata Aiaccia poi storpiato in Raccia. L’autore era un contadino semianalfabeta, dalla vita travagliata e che negli ultimi trent’anni della sua vita fu rinchiuso nel manicomio di Imola.

La sua è una prosa semplice, stringata, quasi un racconto orale trascritto, un elenco di fatti ma sotto i quali si intravede quasi una vena poetica, una vena che ci trasporta nel mondo contadino di tanti anni fa, e ci presenta un personaggio che vive isolato dal mondo, sia dal punto di vista sociale ma anche affettivo, anche se sposato e padre. La solitudine lo accompagnerà fino alla morte che avverrà in ospedale psichiatrico a Imola nel 1993. Possedeva una religiosità profonda anche se inquinata da credenze magiche, pensava in fondo di possedere lui stesso delle doti quasi da guaritore quando ci racconta i suoi esperimenti per curare e guarire uomini e animali.

Restò sempre legato alla sua casa natale: La Raccia, oggi ormai diroccata, la quale rimase sempre nel suo cuore. Da lì se ne andò nel 1956 , dopo screzi e incomprensioni con il padre. Era andato a scuola a Frena per un anno poi il babbo lo aveva ritirato, assicurando al maestro che gli avrebbe insegnato lui a scrivere; dopo una vita passata modestamente, col ricovero in manicomio riscoprirà quest’arte, forse quasi dimenticata, e si getterà potentemente nella scrittura, sarà colto dall’ansia di fissare su un foglio i fatti della sua vita.

La scrittura rimane l’unico suo modo per presentarsi al mondo, per far sapere che anche lui esiste ed è parte di esso, che ha vissuto e che forse è stato anche felice. La sua era una vita fatta di piccole cose, di gesti e riti quotidiani, legata a tanti formalismi che l’avrebbero condizionata, ma non meno importante di quella di tanti sapienti. Col suo diario ci tramanda un mondo fatto di fatica, di sacrificio e di poca soddisfazione che lui affrontava quasi con distacco, anche negli eventi più tragici come la morte della madre. Ci narra in maniera cruda e scarna i fatti piccoli e grandi di tutti i giorni: i litigi con i familiari, la mucca che si gonfia perchè mangia l’erba medica fresca o il passaggio del fronte, senza indugiare sui suoi pensieri o sui suoi stati d’animo.

Un libro piccolo che si legge in fretta e tutto d’un fiato ma ci immerge nel mondo contadino che fu, che ci fa camminare accanto ad una persona piccola ma importante agli occhi del Signore in cui lui crede con tanta fede.

Scrisse forsennatamente una cinquantina di quaderni che gli venivano regolarmente gettati via, dal personale del manicomio, con la scusa di riordinare la camera e perché ritenuti insignificanti. Se ne salvarono solo tre. Il primo e il secondo, datati 1981 e 1982, riportano episodi della vita di Primo dalla nascita all’età di 60 anni; il terzo riporta la narrazione fatta dal padre del periodo della prima guerra mondiale alla quale aveva partecipato come combattente; racconta di come il suo babbo partecipò alla presa di Gorizia, alla battaglia del Montegrappa e alla disfatta di Caporetto. Riporta i racconti, mescolando a volte la realtà con la fantasia, sulle battaglie del fronte presentando il padre quasi come un eroe che affronta con coraggio quasi incosciente il conflitto; ci narra anche molti particolari della vita di ogni giorno, nelle zone di combattimento, che danno sapore alla narrazione. In ultimo fa un cenno anche all’influenza spagnola della quale si ammalò anche la mamma, e che, secondo lui, era dovuta all’aria che si era infettata per tutti quei gas e quelle bombe che buttarono durante la guerra. Una prima stesura degli scritti di primo fu pubblicata su “ L “, una rivista quadrimestrale edita dalla cooperativa “ Il posto delle fragole “ che a Trieste gestiva alcuni spazi lasciati liberi dopo la dismissione del manicomio cittadino.

Del libro sono state stampate due edizioni: una a cura del centro culturale L’Ortica di Forlì uscito nel 1990 e seguito da due ristampe, nel 1992 e 1994, dal titolo “Ma ogni tanto la debolezza ci prende “, nella quale il curatore, Francesco Lanza, ha inserito diverse aggiunte che furono fatte oralmente dall’autore per integrare il testo, inoltre ha rimesso in ordine cronologico i vari episodi, riguardato la punteggiatura e corretto gli errori ortografici più evidenti. L’altra edita nel 1995 con una corposa introduzione di Renato Curcio (quel Renato Curcio) porta un altro titolo: “Mi viense allora uno sperimento“, il testo è assai più stringato del precedente in quanto il curatore riporta solo in minima parte le integrazioni orali fatte da Primo, attenendosi strettamente agli scritti originali e aggiunge alla Vita di Raccino e alla guerra del babbo, una sorta di componimento a sfondo religioso intitolato “ Tremenda legge !”.

Un capitolo dedicato a Primo Vanni, è scritto anche sul libro “L’aria ride“, di Paolo Cambi e Elisabetta Mari, dedicato all’incontro fra Sibilla Aleramo e Dino Campana al Barco e alla loro permanenza a Casetta di Tiara. Da questo libro fu tratto anche uno spettacolo teatrale nel quale vennero accostate le personalità di Dino e Raccino. Due personaggi provenienti da due mondi differenti, uno colto e letterato che troverà posto tra maggiori poeti del Novecento, l’altro contadino quasi analfabeta, ma accomunati entrambi da una grande voglia di scrittura, dal periodo felice passato a Casetta e dalla fine in ospedale psichiatrico.

Infine trascrivo un componimento di Primo Vanni riportato al termine dei quaderni che narrano la sua vita, e scritto nel 1964 mentre si trovava a Casetta a spaccare la legna:

Io sto pensando dalla sera alla mattina
che in Italia c’è un progresso che porta alla rovina
Di molti abbandonano i poderi
con l’idea di far i signori
eppoi vanno giù in città
Ma la roba rincarisce e la và più in su
e la gente si lamenta che non c’arriva più
Ma invece chi resterà in campagna
alla fine si vedrà chi più guadagna
Chi terrà pecore, vacche, maiali, polli e pollastre
e che va a fare il signore in città mangerà le lastre.

Sergio Moncelli
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 maggio 2020

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