MUGELLO – Pur essendo ispirati a eventi, personaggi e luoghi reali, i racconti di questa serie sono romanzati e frutto esclusivo della fantasia dell’autore. 

Stava fiorendo rigogliosa negli occhi e nel cuore la primavera in quell’Aprile 1949. Già a quel tempo di case coloniche abitate nella gola del Muccione ne erano rimaste veramente poche; c’era Campo Nardone, Saltomare, Brancobalardi, Le Casette, Poggialti. In quei casolari sperduti e dimenticati tra i monti senza nessuna comodità, alcuni contadini ricavavano ancora il poco necessario per vivere da un campetto di grano strappato alla roccia, qualche animale o dalla raccolta dei marroni che venivano sistemati con cura nei seccatoi. Strano a dirsi, esistevano anche delle eccellenze; ad esempio, pare che il burro prodotto dal contadino di Brancobalardi fosse considerato prelibato; di sicuro era genuino. Uno dei rari momenti in cui queste coloniche si popolavano un po’ era durante la (magra) battitura del grano, quando la trebbiatrice arrivava a pezzi su carri trainati dalle bestie e veniva montata sul posto; si trattava di un’impresa titanica, quasi assurda pensando al rapporto tra fatica e risultati! Eppure, si faceva. Giulia aveva solo quattordici anni quando andò a vivere tra quelle montagne, e non era certo il sogno della sua ancor breve vita.

Lì nel casolare di Piandolci non c’era assolutamente nulla e la vita scorreva in giornate dure e sempre uguali; alzarsi all’alba, le pecore, la stalla, il bucato. Le sarebbe piaciuto tanto fare la sarta e impiegarsi in città, ad esempio in un grande paese come Borgo San Lorenzo, ma da quell’orecchio suo padre non ci sentiva proprio.

Francesca, invece, aveva sì e no un anno in più di Giulia e in quel mese andò ad abitare con la famiglia nel casolare di Pian Bertozzi. Dal giorno in cui era entrata per caso in un piccolo teatro coltivava un sogno, quello di recitare e aveva sempre la testa fra le nuvole; ma, forse, anche per lei tutto era destinato a rimanere fantasia.

Vicino a queste due coloniche c’era la stazione di Fornello e un tempo ci passava il treno, ma ora non più dopo le distruzioni della guerra; civiltà e progresso sfioravano un mondo rurale distante anni luce. Le due ragazze si conobbero negli scoscesi sentieri che conducevano a Gattaia dove a volte andavano per qualche acquisto o per la messa. La scuola che amavano tanto frequentare, quella l’avevano dovuta abbandonare da tempo; in famiglia non potevano certo perdere braccia giovani per queste sciocchezze. Già sembrava una specie di disgrazia al padre la nascita di una femmina; figuriamoci, con tutti i lavori pesanti da fare lui avrebbe voluto solo figli maschi.

Vi sembrerà impossibile, ma allora non esisteva internet, cellulari e nemmeno la televisione; in casa non c’era neppure la radio e il telefono, e il bello è che si viveva lo stesso. L’unico svago per le due giovani era incontrarsi in riva al torrente per sognare insieme i divi del cinema, confidarsi paure, speranze, i primi amori platonici, trovare conforto dai rispettivi problemi e incomprensioni familiari. Diventarono inseparabili, però c’era un problema, la distanza. Separate dal fiume, le ragazze potevano solo scorgere in distanza i rispettivi casolari; così Francesca e Giulia idearono un piccolo stratagemma; si misero d’accordo e, quando una aveva bisogno di vedere l’altra o voleva andare insieme da qualche parte, legava un fazzoletto bianco a una finestra ben visibile dalla colonica dell’amica; l’altra faceva lo stesso. Pochi minuti dopo, entrambe partivano e s’incontravano nel fosso stringendosi forte in un grande abbraccio.

Se, invece, per risposta veniva esposto un fazzoletto colorato, voleva dire che una delle due non poteva assentarsi. Le cose andarono avanti così per quasi quattro anni, tutta la loro adolescenza, il periodo più bello della vita vissuta da isolate. Finché un giorno Francesca arrivò piangente al consueto appuntamento; il padre aveva deciso di trasferirsi in un’altra zona della Toscana, e dunque si persero di vista. Allora era più difficile di oggi mantenere i contatti; si scambiarono qualche lettera ma alla fine l’amicizia svanì soffocata dalla distanza.

Arrivò il 1990. Erano trascorsi più di quarant’anni e Giulia era rimasta in Mugello; non era diventata sarta, anche se con ago e filo se la cavava. Si era sposata con un mugellano e aveva avuto tre figli e poi erano arrivati due nipotini. Quel giorno al mercato a Vicchio stava comprando degli oggetti per la cucina quando i suoi occhi incrociarono quelli di una signora elegante e con un velo di malinconia nello sguardo. “Francesca!” esclamò sorpresa Giulia mentre l’altra le sorrise subito. Così le due signore si abbracciarono dopo quarant’anni e i ricordi volarono leggeri.

Sai” fece Francesca, “ora vivo a Pisa mi sono sposata ma ho avuto un matrimonio sfortunato; comunque sono tranquilla, ho potuto dedicarmi al teatro come volevo. Il Mugello ormai fa parte del passato, sono qui solo per caso.” Non sembrava avessero più molto da dirsi, così con un certo imbarazzo reciproco si salutarono.

In fondo alla discesa che conduceva alla stazione di Vicchio, Francesca sentì d’improvviso un grande brivido correre lungo la sua schiena; d’istinto, frugò in borsa, tirò fuori un fazzoletto bianco e si voltò agitandolo. Lontano, in cima alla salita, vide che anche Giulia stava sventolando con forza verso di lei un grande fazzoletto bianco. Forse per entrambe era davvero arrivato il momento di un nuovo incontro.

Fabrizio Scheggi
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – marzo 2024

Share.
Leave A Reply

Exit mobile version