BORGO SAN LORENZO – In questi giorni in cui si inizia a pensare ad una possibile riapertura dei sipari, sentiamo la voce di Leo Gullotta, artista poliedrico, vincitore del David di Donatello per “Il camorrista” (Tornatore, 1986), “Il carniere” (Zaccaro, 1997), “Un uomo perbene” (Zaccaro 1999) e di molti altri riconoscimenti. In questa intervista, l’attore di indubbia fama racconta l’impegno che c’è dietro il lavoro dell’attore, affrontando aspetti interessanti di alcune sue opere. Infine, ai giovani raccomanda di studiare, di essere curiosi, di coltivare lo “studium” dei Latini, ovvero la passione per quello che si fa: solo attraverso una dedizione completa si potrà rendere la vita un’opera d’arte.

Uno dei suoi tanti lavori in teatro è stato “Il giorno della civetta”, la trasposizione teatrale di un’opera letteraria in cui compare una denuncia forte alla mafia, senza però trascurare l’aspetto artistico del romanzo. Quanto bisogno c’è ora di opere di questo tipo, in cui l’ambito sociale è associato alla ricerca della bellezza? Sì, io ho recitato ne “Il giorno della civetta” nel 1963. Sciascia racconta la Sicilia in maniera impeccabile, le sue opere hanno un enorme valore, poiché sono ricche di spunti di riflessione e di elementi introspettivi. C’è moltissimo bisogno di questo, soprattutto oggi. In teatro, la qualità del lavoro dipende da come avviene la messa in scena. Nel caso di Sciascia, lavorando molto sui suoi testi e dunque cercando una vicinanza con quanto scrive, ci sono grandi possibilità di fornire un’opera bella. In questo, noi saremmo avvantaggiati, perché viviamo nel Paese della Bellezza, che però ha la memoria corta. Non ci rendiamo conto del patrimonio culturale che abbiamo, spesso tendiamo a generalizzare e a non riflettere sul valore del singolo testo. Per esempio, molti davanti ad un’opera di Plauto mostrano di non apprezzarla a sufficienza, poiché sono vincolati all’idea che queste commedie abbiano il solo scopo di far ridere. Questo non è vero: le commedie plautine sono uno specchio dell’umanità. Non dobbiamo mai dimenticare la ricchezza del teatro, che dà sempre nuovi spunti. A tal proposito, mi viene in mente uno spettacolo che ho portato al Teatro Eliseo di Roma. Si tratta di “Prima del silenzio”, di Giuseppe Patroni Griffi, un’opera a sfondo filosofico. È stato un grande successo, il pubblico era molto commosso, testi di questo tipo procurano un graffio al cuore.

L’anno scorso avrebbe dovuto portare al Teatro Giotto di Borgo San Lorenzo lo spettacolo “Bartleby lo scrivano”, un racconto che è stato visto anche come l’elogio della disobbedienza nei confronti di una società che pensa solo a ciò che è economicamente produttivo. C’è un tipo di disobbedienza che dovrebbe essere sempre portata avanti e difesa, anche secondo quanto affermato da don Milani che sosteneva che “l’obbedienza non è più una virtù” ? Sì, penso che in alcuni casi la virtù diventi proprio la disobbedienza. Sono stato molto contento di aver interpretato questo personaggio, reso emblematico dal suo ossessivo ripetere “No, grazie, preferisco di no”. Non tutti conoscono questo libro di Melville, è uno di quei capolavori da leggere tutto d’un fiato. Anche in questo caso, in un’opera che apparentemente sembra ironica, c’è un significato importante: infatti, nella figura di Bartleby è impersonato il concetto della disobbedienza civile.

Un altro ruolo da lei ricoperto è quello dell’ingegner Mario Pancini, uno dei responsabili del disastro del Vajont. È una figura controversa, poi tormentata dal senso di colpa. Spesso però gli si concedono delle attenuanti, infatti sulla diga c’è una lapide di marmo che lo commemora. Come hanno influito questi aspetti nella sua interpretazione? Io ho avuto la fortuna, nella mia carriera, di interpretare personaggi reali, il che mi ha reso molto felice, perché mi ha fatto percepire l’utilità del mio lavoro. In questi casi, si fa in modo che emergano pezzi di Storia poco affrontati, come il disastro del Vajont. È stato un lavoro veramente complesso, vista la drammaticità di quell’episodio. Quando il film fu concluso, venne proiettato sulla diga, fu veramente un momento forte, dire che ero commosso sarebbe riduttivo. Per interpretarlo, ho cercato, sempre con discrezione, di capire come questa tragedia fosse ancora viva nel cuore degli abitanti di Longarone. Passando alcuni momenti con loro, ho appreso molto di quella vicenda e dei suoi protagonisti. Pancini era il più onesto, ma nessuno gli diede ascolto. Era in America quando il monte Toc precipitò nell’acqua, reagì togliendosi la vita. Pochi anni prima, avevo recitato nel film “Un uomo perbene” di Maurizio Zaccaro sul caso Tortora e qui interpretavo Giovanni Pandico, una persona che era proprio l’opposto di Pancini. Si trattava di un essere malato che aveva architettato il piano di cui fu vittima Enzo Tortora.

Spesso, quando pensiamo agli attori, si tende ad immaginarseli nel momento del successo. Tuttavia, c’è una buona dose di sacrificio e impegno… Infatti, non ci si immagina neanche quanta fatica ci sia dietro questo lavoro. L’attore è un interprete, deve cimentarsi in molti aspetti, deve far sì che il pubblico viva molte vite, che, ovviamente, sono tutte diverse dalla sua. Oggi si riduce questo mestiere a un passatempo degli spettatori, c’è ancora molta ignoranza nei confronti del teatro. Ciononostante, ultimamente qualcosa stava cambiando. Infatti, anche nei programmi scolastici sono previste le uscite a teatro. Prima, gli studenti non avevano rispetto di questi luoghi, facevano confusione, pensavano ai fatti loro, invece, negli ultimi anni, c’è stato un cambiamento. Ho visto classi intere di ragazzi entrare a teatro e mostrare lo stesso riguardo che si deve ai luoghi di culto. Questo è il segno che si è cercato di sensibilizzare i ragazzi verso questa forma d’arte.

Pochi giorni fa, su proposta dell’associazione U.N.I.T.A, è stata fatta luce sui teatri italiani, in segno di protesta per tutti questi mesi di chiusura. Si è trattato di una manifestazione efficace o può aver dato adito a fraintendimenti? Penso che le manifestazioni di questo tipo siano sempre efficaci, anche perché finora non ci avevano mai ascoltato. Sono circa 80.000 i lavoratori dello spettacolo che in questo momento sono senza lavoro, il che significa tante famiglie in difficoltà. Quindi, ben venga fare luce sul teatro. Certo, c’è stato anche un po’ di assembramento, che si sarebbe potuto evitare. Era però importante dare un segnale forte.

Lei è anche doppiatore. Quali sono i pregi dell’arte del doppiaggio, che è poco diffusa negli altri Paesi, mentre è molto radicata in Italia? Essere doppiatore è una specializzazione di natura tecnica, è un’altra sfaccettatura del lavoro dell’attore. Bisogna mettere la voce giusta al personaggio, quindi si deve seguire a tutto tondo l’attore straniero che si va a doppiare. Io penso che chi fa il nostro lavoro dovrebbe sperimentare sempre, non fermarsi ad un unico genere, ma conoscere tutti i linguaggi dello spettacolo. Ai tanti ragazzi che vogliono fare gli attori dico sempre “Studiate! Sperimentate, non vi fermate davanti a chi vi parla di un guadagno facile!”. Dico loro di mantenere sempre la curiosità, è una grande spinta verso la vita, che è sempre meravigliosa.

Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 27 febbraio 2021

 

Share.
Leave A Reply

Exit mobile version