pananti-300x270…E’ un mezzo secolo e vari anni di più che sono nato in Ronta, piccola ma graziosa terra del Mugello, bella provincia della Toscana. La mia famiglia era civile ed assai comoda, ma in seguito ha sofferto disastri e perdite considerevoli. Ebbi la prima educazione nel collegio di Pistoia, fui poscia all’Università di Pisa ed ebbi la laurea; ma, simile in questo solo a tanti altri celebri amanti delle Muse, ebbi avversione all’esercizio dell’arte legale. Passai in Francia e fui due anni professore nelle scuole celebri di Sorèze. Passai colà giorni felicissimi, ma d’un animo inquieto mantenendomi sempre, viaggia in Spagna, corsi tutta la Francia, i Paesi Bassi, l’Olanda, e venni in Inghilterra, ove la guerra riaccesa mi chiuse. Dimorai dieci anni nella Gran Bretagna e vi fui professore di lingua italiana, poeta a quel teatro italiano, e giornalista, facendo guadagni molto considerabili. Sembrandomi d’essere sufficientemente provvisto, pensai di riposarmi dalle fatiche letterarie, m’imbarcai per la Sicilia con l’idea di fare un viaggio nella Grecia e nel Levante, e poi riposarmi; ma per via caddi in potere dei pirati algerini, che mi tolsero la più gran parte de’ miei beni che io aveva affidata al mare in una speculazione mercantile. Perdei anco la libertà, ma questa la riebbi subito per la potente prestazione del console d’Inghilterra…

Semmai, a voler rinvenire caratteri tipicamente mugellani nell’opera di Filippo Pananti (Ronta 1766 – Firenze 1837) si può dire che una certa vena comica, o comunque un atteggiamento arguto, paiono essere, al di là della riuscita artistica, una costante piuttosto frequente nei letterati nativi di questa terra. Tale vena raggiunge però, nel poeta rontese, la causticità del motto e della burla. Ed è soprattutto nell’epigramma che il Pananti dà il meglio di sé, anche se talvolta con un’incontinenza stilistica spesso criticata, come pure è stata notata la sua propensione a profittare dell’opera altrui.

I versi del Pananti, ai quali più volte l’autore applicò il suo labor limae, segno chiaro della consapevolezza dell’evidente loro imperfezione, raggiungono nelle prove migliori lo scoppiettio toscano del gusto per la lepidezza e il motto, per la battuta allusiva e salace, per quella comicità paesana, le cui vicende quotidiane danno continui spunti al poeta, che non rifugge neppure da immagini più dirette e scurrili, emendate in gran parte nell’edizione definitiva, Opere in versi e in prosa (1824-1825) da lui stesso curata per presentarsi al concorso indetto dall’Accademia della Crusca (lo stesso concorso a cui partecipò anche Leopardi con le Operette morali). Le edizioni contenenti epigrammi osceni, alcuni dei quali qui presentiamo, furono subite vietate e perseguite dai vari governi e sono ormai quasi introvabili.

Bastano pochi versi per saggiare il brio e la facile, frizzante vena del poeta di Ronta:

Sosteneva un dottore
che ha fatto tutto bene il Creatore;
gli disse un gobbo:
“Guardami le rene”.

Ed ei:
“Per gobbo tu sei fatto bene”,

vena non discosta, spesso, da una forma popolana e immediata.

Una donna vicina al partorire
Ponzava, e dava segno di patire,
Il marito esternava gran pietà
Ai duoli di sua tenera metà.

Gli disse allor colei: non v’affliggete
Perché voi colpa alcuna non ci avete.

Il rapido motto, unito alla disincantata visione della realtà, giunge al proverbio:

A chi un segreto? A un bugiardo, o a un muto:
Questi non parla, e quel non è creduto.


L’uomo a forza di cibi succulenti
Scava la tomba con i propri denti,

fino alla battuta caustica e perentoria:

Sedevo a mensa con un Faentino.
Qual v’ha distanza, egli richiese a me,
Fra un ciuco e un Mugellano? Io dissi: V’è
Quella appunto di questo tavolino.

Frequentissimo è il piglio dissacratore e polemico verso la Chiesa:

Qui giace un Cardinale
Che fe più mal che bene.
Il ben lo fece male,
Il mal lo fece bene.


A un fresco Olivetano
Una femmina in mano
Pose dodici lire,
Pregandolo di dire
Per lei dodici messe,
Acciò un figlio il signor le concedesse.

Il molto reverendo le rispose;
Madonna, in quelle cose,
Che posso fare anch’io,
Che serve incomodar Domeneddio?

 La materia sessuale è argomento frequentissimo dei versi del Pananti, anch’essa ingrediente tipico della comicità popolana.

Pietro alla tanto desiata amica:
Tutt’altra io ti credea da quel che sei.
Entrar senza fatica
Potrebbe un tiro a sei.

Quella rispose: volli farvi onore,
con spalancarvi tutte due le imposte,
Credendo che voi foste
Con un treno maggiore.


Languida sembra Fille,
Sdrajatela sul letto,
E son quel che scommetto
Che stancherebbe mille.


La vostra impareggiabile beltà
Meritatamente fa
Una perla da tutti nominarvi;
convien dunque infilarvi.

 Le malignità di paese, l’avarizia, infedeltà e amanti, la polemica contro le regole e i costumi comuni sono ingredienti dei vivaci versi epigrammatici del poeta, che nel prendere di mira i più diffusi vizi umani mostrano, più che un intento moraleggiante, il gusto mordace di un realismo disincantato.

Dicono sette i Sacrementi? Sei,
Del Papa con licenza,
Piuttosto li direi.

Sono un sol, matrimonio, e penitenza.


Un tal cascato in mezzo ad un pantano
Disse a un avaro, datemi una mano;
Come, come, l’avaro replicò,
Io la man darvi? ve la presterò.

Filippo Pananti è soprattutto poeta: tra le sue opere Il paretaio, l’ampio poema in sestine Il poeta di teatro, considerato la sua opera maggiore, le Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia. Il pregio maggiore di Pananti non si trova né nell’originalità né nella forza del contenuto: gli si rimprovera infatti soprattutto la prolissità e la scarsa originalità; si distingue invece nella carica aneddotica, in quella comicità incapace di approdare al sarcasmo, ma superante anche la levità dell’arguzia, e sfociante piuttosto nel sogghigno, temperato dal modo burlesco e da una certa ingenuità della forma. (P.G.)


La biografia e le opere di Filippo Pananti (Fonte Treccani):

Nacque nella villa avita di Poggio a Greppi, nel popolo di S. Maria a Pulicciano, presso Ronta nel Mugello, il 19 marzo 1766 da Giuseppe e Caterina Angiola Gatti.

Ottavo di dieci figli, rimase orfano di padre a due anni e, insieme con i fratelli, passò sotto la tutela dello zio materno Angelo Gatti, clinico noto all’epoca per avere, tra i primi, praticato la vaiolizzazione a scopo profilattico. Dopo i primi studi nel seminario-collegio vescovile di Pistoia (1777-85), si avvicinò alla Accademia di S. Leopoldo, ispirata dalle teorie del vescovo Scipione Ricci. Non mostrando inclinazione per la vita religiosa, lasciò il collegio e nel novembre 1585 si immatricolò nella facoltà di diritto dell’Università di Pisa. Fu allievo di Giovanni Maria Lampredi e Lorenzo Pignotti. Si laureò nel 1789, ma non praticò mai l’avvocatura, alla quale preferì la poesia, coltivata con passione fin dall’inizio degli studi universitari.

Nel 1792, grazie all’interessamento dello zio, divenuto medico di corte a Napoli, fu proposto a Lampredi per fare parte della commissione per la revisione del Codice civiletoscano, ma il progetto non andò a buon fine per la prematura morte del Lampredi (1793). Ormai inserito nel contesto culturale fiorentino, divenne intimo del salotto del marchese Federico Manfredini. Pur non animato da profondo interesse per la politica, fu dapprima assertore di Robespierre, poi moderato dopo il Termidoro e infine, dal maggio 1795, mediatore ufficioso tra il governo granducale e il ministro francese residente a Firenze, André François Miot. Nel 1796, quando i rapporti tra Francia e Toscana presero a deteriorarsi e il governo inasprì le misure antirepubblicane, Pananti rinunciò al ruolo di mediatore e per un breve periodo si defilò dalla vita politica, viaggiando per la Toscana e dedicandosi all’improvvisazione poetica e alla convivialità.

Nel 1798, date le difficoltà economiche seguite alla morte dello zio, tornò a Firenze, contando su una discreta fama letteraria, benché non avesse ancora pubblicato nulla. Esordì di lì a poco con una raccolta di Epigrammi e novellette (Milano s.d., ma 1799) e due poemetti La civetta (ibid. 1799) e Il paretaio (ibid. 1803), mostrando fin da queste prime prove l’attitudine burlesca e narrativa, che lo ha fatto considerare il predecessore di Giuseppe Giusti e di Antonio Guadagnoli. La produzione epigrammatica, nonostante le accuse di scarsa originalità, fu a lui tanto congeniale che vi si dedicò per tutta la vita, mettendo assieme centinaia di componimenti prevalentemente ameni e arguti, apparsi in numerose edizioni, alcune delle quali messe all’Indice per la presenza di oscenità.

Con l’occupazione di Firenze da parte dei francesi (25 marzo 1799), Pananti proclamò le proprie posizioni democratiche, come attestano i suoi discorsi (due dei quali pubblicati nel Monitore fiorentino, n. 36, 6 maggio 1799 e n. 47, 18 maggio 1799), spesso pronunciati presso la Società patriottica fiorentina, di cui fu tra gli animatori.

Nel tentativo di placare la rivolta dei sanfedisti, si recò per due volte ad Arezzo assieme ad altri membri della Società, opponendosi all’atteggiamento del ministro Karl Friedrich Reinhard, responsabile del governo civile della Toscana, che non aveva negoziato con gli insorti. Pananti prese contatto con i capi dell’insurrezione e, nel timore del fallimento della mediazione, impedì che ricevessero i severi proclami governativi di esortazione alla resa. A seguito della ferma reazione di Reinhard, che fece pervenire i proclami ai ribelli, Pananti rischiò di essere ucciso da questi ultimi, poiché considerato un traditore.

Nell’agosto 1799, dopo la fuga dei francesi e la conseguente restaurazione, Pananti, paventando il furore degli aretini, nonché le persecuzioni del governo granducale (dal quale subì la temporanea confisca dei beni), riparò in Francia, dove dal marzo 1800 al settembre 1802 ebbe l’incarico di professore di lingua e letteratura italiana presso il collegio di Sorèze (Tarn).

Nel 1803 si trasferì a Londra e benché intendesse trattenersi solo qualche mese, vi rimase dieci anni, anche a causa della ripresa delle ostilità con la Francia. Oltre a insegnare italiano anche a esponenti della nobiltà, tentò speculazioni commerciali, fece traduzioni e fondò nel 1813, assieme ad altri compatrioti, un giornale politico-letterario, L’Italico, di cui divenne il primo direttore. In questo periodico, oltre a vari articoli in prosa, comparvero moltissimi suoi epigrammi, poesie e critiche teatrali. Fra gli italiani con cui strinse amicizia, molti dei quali esuli a cui fornì aiuto, figura Lorenzo Da Ponte che, in procinto di emigrare in America, consentì a Pananti di subentrargli nell’incarico di poeta al servizio del King’s Theatre in Haymarket (il teatro italiano di Londra). In questa nuova veste, contando su una soddisfacente retribuzione, si dedicò a comporre (non è rimasto che un titolo, Gli amanti rivali), destreggiandosi tra compromessi artistici e difficili relazioni con le compagnie. Ispirato da questa esperienza, Pananti diede alle stampe Il poeta di teatro (Londra 1808), poema tragicomico ripetutamente rielaborato, dove la narrazione umoristica, svolta con l’efficacia di un linguaggio vicino al parlato, si richiama a modelli letterari illustri, in particolare Laurence Sterne e Francesco Berni.

Deciso a tornare in Italia, nel 1813 si imbarcò da Calais per la Sicilia e, poco dopo avere passato Gibilterra, cadde prigioniero di pirati algerini, fu condotto in Africa e ridotto in schiavitù. Per intercessione del consolato inglese, fu liberato in breve tempo, ma perse tutti i beni sottrattigli al momento della cattura, compresi i libri e i manoscritti contenenti i suoi lavori. Costretto a trattenersi ad Algeri in attesa dell’opportunità di imbarcarsi, poté visitare la città e, pare, altre zone del Nordafrica.

La narrazione di questa permanenza confluì nelle Avventure ed osservazioni… sulle coste di Barberia (Firenze 1817), di cui una breve anticipazione, I quattro più orribili mesi della mia vita, era apparsa su L’Italico nel 1814.

L’opera godette di discreta fortuna, attestata da diverse edizioni e da traduzioni in inglese (Londra 1818), francese (Parigi 1820) e tedesco (Berlino 1823). Alla rievocazione dell’avventura algerina, viva ed efficace nel racconto dei particolari, fa seguito una seconda parte geografica, che, ricca di contenuti tratti da opere altrui, procurò all’autore accuse di plagio (Biblioteca italiana, II [1817], 7, pp. 43-74; A. Genovesi, Epistola dell’uomo fermo di Vicchio all’uomo girellaio di Ronta, Firenze 1817). Con il titolo Relazione di un viaggio in Algeri(in Opere in versi e in prosa, Firenze 1824-25), Pananti ne rielaborò un’ulteriore versione priva di molte parti autobiografiche.

Alla fine del 1813 Pananti riuscì a lasciare Algeri e raggiunse Palermo (gennaio 1814), dove, nei sei mesi di permanenza, fondò un giornale democratico filoinglese, il Corriere di Sicilia, la cui pubblicazione cessò con il suo ritorno in Toscana.

Si stabilì definitivamente a Firenze grazie ai risparmi depositati in una banca londinese prima della disavventura algerina e decise di non viaggiare più. Soltanto tra il 1818 e il 1819 fu a Londra e in Olanda a causa di affari in sospeso. Continuò a dedicarsi alla letteratura, come attesta la sua partecipazione al concorso indetto dall’Accademia della Crusca nel 1828 con la nuova edizione delle sue Opere in versi e in prosa. Vi partecipò anche Leopardi con le Operette morali, ma il vincitore fu Carlo Botta con la Storia d’Italia dal 1789 al 1814. Pananti ottenne comunque riconoscimenti e rientrò in seguito fra gli autori citati nel Vocabolariodell’Accademia. L’8 aprile 1820 fu tra i primi ad associarsi al Gabinetto scientifico e letterario fondato da Gian Pietro Vieusseux. Fu acceso difensore della scuola letteraria toscana rispetto alle critiche della Biblioteca italiana, nonché assiduo frequentatore del salotto fiorentino della marchesa Carlotta Lenzoni Medici, dove strinse amicizia con Giovan Battista Niccolini, Giuseppe Giusti e Atto Vannucci. Ebbe anche occasione di avvicinarvi Leopardi e Alessandro Manzoni.

Morì a Firenze il 14 settembre 1837 e fu tumulato nel chiostro della basilica di S. Croce. Il monumento funebre, scolpito dallo scultore Reginaldo Bilancini a seguito di una sottoscrizione di intellettuali e artisti fiorentini, fu completato da un epitaffio di Niccolini.

© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 2019

 

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