L’opera raffigura a tutto tondo Cristo risorto in posizione eretta; vestito del solo perizoma azzurro, egli sostiene con la mano sinistra la croce mentre la destra è rivolta verso il basso in direzione di un grosso calice dorato. La presenza di quest’ultimo elemento permette di focalizzare meglio il soggetto rappresentato e di circoscriverne l’iconografia, generalmente riferita come quella del Cristo Risorto, nella sua più corretta individuazione della cosiddetta Effusio Sanguinis (o Sangue del Redentore), ovvero la rappresentazione simbolica dello spargimento del sangue di Cristo dopo la Crocifissione e la sua raccolta nel calice per esprimere il diretto legame fra il sacrificio di Gesù e l’offerta di redenzione donata a tutti gli uomini attraverso l’eucarestia. Tale raffigurazione risale all’epoca medievale e viene particolarmente usata per decorare gli sportellini dei cibori dove era riposto il Sacramento.
E proprio a questo periodo risale anche l’opera santagatese che esprime con chiarezza didattica il messaggio di redenzione attraverso il sangue di Cristo; questo, seppur nemmeno rappresentato -solo un leggero rigolo rosso percorre la ferita del costato- è però simbolicamente evocato. Infatti l’apparente sproporzione del braccio sinistro evidenzia in modo quasi espressionistico la grande mano di Cristo che, mostrando nella palma il segno del chiodo, catalizza lo sguardo del devoto e lo indirizza verso il calice seguendo un immaginario zampillo di sangue che, difficile da rappresentare in scultura, viene ricreato nel pensiero interiore del devoto così coinvolto con tutti i suoi sensi nell’adorazione e nella preghiera. Il bel volto di Cristo modellato con cura, evoca dolcezza ed accoglienza mentre l’atletico corpo, quasi da divinità greca, trasmette sicurezza e forza, rappresentando il porto sicuro per le tribolazioni. Significato e forma, quindi, si armonizzano perfettamente in questa scultura che in piccola scala, richiama opere ben più monumentali. Come non pensare, infatti con le debite proporzioni, al celebre Cristo michelangiolesco della Minerva a Roma, noto a Firenze nella versione scolpita nel 1579 da Taddeo Landini in Santo Spirito, di cui il nostro ben più modesto autore ricorda il classicismo rinascimentale nella nudità del corpo. Se pur con qualche incertezza formale, il nostro scultore riecheggia nelle forme tornite e nell’equilibrio della posizione, la gloriosa tradizione scultorea delle botteghe di intagliatori fiorentini che trasmisero nel tempo quella tipica armonia di cultura classica e rielaborazione contemporanea appresa dai grandi maestri, da Michelangelo a Giambologna, dalla dinastia dei Del Tasso fino alla scultura del primo Seicento.
Nonostante le sue più che modeste condizioni, era appassionato di “cose antiche” che aveva raccolto nella sua casa; si ricordano un bel cassettone, alcune “pietre strane” e fra queste, incredibilmente, anche la scultura del Cristo, forse giuntogli dall’eredità della moglie Oliva stata a servizio in una facoltosa famiglia. I vecchi santagatesi ricordavano che per Pasqua, “Beppe Naso” portava il Cristo risorto in pieve dove veniva esposto alla preghiera per poi tornare nella sua casa, fino al momento della sua morte quando la scultura rimase definitivamente nella chiesa santagatese e lui ebbe riposo nel cimitero del paese. Il piccolo ossario che ne conserva le spoglie ancora ci trasmette il suo volto, quello di uomo semplice ma dall’aspetto dignitoso, distaccato quasi sognante. Il restauro di quest’opera, quindi, non solo ha garantito il recupero materiale di un’importante opera d’arte, ma ne ha permesso anche il recupero immateriale della sua storia per ritrovare la memoria di un personaggio dimenticato che, nonostante le necessità, non si era mai separato da questa bella immagine di Cristo e l’aveva infine lasciata alla sua chiesa: un segno di fede che offre molti spunti di riflessione e del quale noi possiamo ancora beneficiare.
Lia Brunori Cianti
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 30 luglio 2022