Margheri, Antonio . “Dio e patria” nel Mugello : le memorie di Antonio Pini prigioniero nella Grande Guerra / Antonio Margheri. – Borgo San Lorenzo : Noferini, 2015. – 117 p. ; 22 cm

Soggetti: Storia. Firenze (provincia). Mugello

Classificazione Dewey: 945.511 3

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Per capire la Grande Guerra risultano sempre più importanti le testimonianze, pur povere e frammentarie, della gente comune e quindi le lettere dal fronte sono una miniera sterminata, indagata solo parzialmente grazie al fatto che la corrispondenza epistolare e la diaristica di guerra hanno subìto meno dispersioni dell’ordinaria documentazione scritta. Sul piano della ricerca lo scoglio più arduo per interpretare correttamente le parole del soldato semplice sta nel fatto che quest’ultimo è molto spesso semianalfabeta. Poi vi sono i filtri soggettivi e quelli indotti dalla censura per cui questi documenti sono una fonte scarsamente attendibile sulle esperienze realmente vissute, dato che vengono sistematicamente taciuti i dettagli più crudi e gli aspetti più ripugnanti della guerra: la violenza degli assalti, gli scontri corpo a corpo, le atroci mutilazioni, l’agonia dei moribondi lasciati sul campo. Risulterà, per esempio, del tutto assente ogni riferimento ai tentativi di diserzione, alle automutilazioni, alle fucilazioni di compagni innocenti, alla crudeltà degli ufficiali, alle violenze sessuali e via dicendo. Fatta questa premessa, bisogna dire che lo studio di Margheri sulla figura e le memorie di questo patriota cattolico di Borgo San Lorenzo è assai utile per valutare le ripercussioni che le vicende belliche ebbero sulla società del Mugello, dove gli interventisti erano un’esigua minoranza. Al nazionalismo interventista dette voce “Il Messaggero del Mugello”, soprattutto la penna di Antonio Giovannini. Il professore di Scarperia fu in primo piano prima nella campagna interventista e poi nell’impegno a sostegno del governo nazionale di guerra, con furiosi accenti contro ogni segno di critica, tacciata di disfattismo.

I socialisti, dilaniati sin da allora dalle divisioni dei sindacalisti rivoluzionari e i riformisti di destra, ebbero nel Mugello una posizione chiara. Così scriveva “La fischiata: organo del libero popolo mugellano” il 1 novembre 1914: «Mai come adesso il contrasto così stridente tra stampa e opinione pubblica. Infatti mentre da una parte si fa propaganda per la guerra, dall’altra una moltitudine che è immensa falange sente la ripugnanza invincibile per una nuova guerra che non farebbe che aggiungere fame a misera disperazione e pianto a sofferenze. Sembra che questo povero popolo cominci a capire che le nostre battaglie non dobbiamo combatterle contro lavoratori che sono al di là del confine e che sono come noi ingannati e sfruttati, ma contro chi delle guerre è causa, contro la borghesia, contro il capitalismo esoso e implacabile[…] Saremo sempre noi che forniremo la carne da cannone per i periodici macelli; saremo sempre noi che pareggeremo i bilanci con odiosi balzelli sul pane, sul sale e sullo zucchero […] Se Vallona Trento e Trieste ingrandiranno l’Italico Impero come lo credono i diversi Corradini e Federzoni… nonché i Bissolati; pensino un po’ essi con i degni accoliti andare a prendersi tanta grazia di Dio, giacché con essi questa Patria dimostra di essere un po’ più prodiga che con noi» .

I cattolici si trovavano in una posizione molto difficile. Dovevano obbedienza al papa Benedetto XV. Molto prima della sua ben nota definizione della guerra come “inutile strage” contenuta in una lettera del 1 agosto 1917, nel suo discorso d’investitura egli aveva espresso orrore e angoscia per lo spettacolo mostruoso del conflitto. Poco dopo aveva rinnovato in un’enciclica lo sgomento per le “gigantesche carneficine” che facevano dubitare che i popoli in lizza appartenessero alla medesima razza umana (erano peraltro gli stessi cattolici a combattere su entrambi i fronti). I suoi appelli rimasero inascoltati e in tutti i paesi i vescovi e le organizzazioni cattoliche furono in prima fila per difendere la rispettiva patria e sostenere lo sforzo bellico.

Nell’azione patriottica si distinsero i due pievani di Borgo San Lorenzo Emanuele Magri («sacra è la guerra presente» affermò in una conferenza tenuta a Borgo San Lorenzo nel settembre 1915) e il suo successore Canuto Cipriani, instancabile in conferenze patriottiche, sottoscrizioni, fiere di beneficienza, raccolta di indumenti di lana per i soldati e regali ai bambini dei richiamati. I Comitati per la preparazione civile durante la guerra formatisi nei vari Comuni coinvolsero i parroci per elargire i sussidi alle famiglie bisognose dei richiamati alle armi e fornire notizie dei militari in guerra. I compiti dei comitati riguardavano anche il soccorso ai reduci feriti o infermi, il collocamento dei disoccupati e la distribuzione della corrispondenza. Bisogna notare che ai contadini, cioè alla maggior parte della popolazione, non fu corrisposto nessun sussidio in quanto si riteneva che i familiari rimasti potessero contare sui prodotti del podere. Si rimarcò così il solco esistente tra i borghi e le campagne e ciò spiega perché la maggior parte del clero delle frazioni rurali non si dimostrarono così solerti come i pievani di Borgo.

A Scarperia il consigliere comunale Antonio Giovannini accusò il clero locale di mancanza di spirito nazionale nella distribuzione dei soccorsi governativi e di non far nulla per innalzare il morale depresso e la fiducia nella vittoria. Risposero sdegnati i preti di Senni, Fagna, Petrona, Cerliano, Marcoiano, Sant’Agata e San Gavino. La situazione di questi preti durante la guerra era ben sintetizzata dal don Sostegno Sostegni, parroco a Collebarucci (Barberino), che scrive sul Chronicon: «Cominciano le requisizioni del grano, del granturco, avena, olio, fieno, paglia, bestiame. Vengono date le tessere personali per lo zucchero, pane, minestra, olio. In campagna però non ci manca niente per il vitto. Seccature, dolori per le perdite di vite, miserie dei rimasti, lamenti, ingiurie contro i preti, in città accusati di pacifisti in campagna di guerraioli; i socialisti aizzano il popolo dicendo che siamo per la guerra, i guerrafondai ci dicono disfattisti».

I percorsi dei cattolici mugellani non furono del tutto lineari. Margheri evidenzia quello del conte Filippo Sassoli de’ Bianchi: mostrò dapprima un’assoluta intransigenza giudicando la guerra una punizione di Dio perché l’umanità non riconosceva l’autorità del papa; nel 1916 non celebrò la festività del 20 settembre; esaltò l’antimilitarismo papale; aderì al Partito Popolare e infine diventò fascista.

Diverso l’approdo politico di Antonio Pini, molto vicino a don Canuto Cipriani: approdato al partito popolare, non rinnegò mai la sua militanza rimanendo ai margini della vita politica fino a quando fu chiamato a far parte del Comitato di Liberazione nazionale nel settembre 1944.

La rassegna dei soggetti contrari alla guerra non sarebbe completa senza nominare il marchese Gerino Gerini, giolittiano, proprietario della tenuta delle Maschere, espressione della linea liberaldemocratica che riuscì a scalzare dal suo tradizionale feudo il conservatore marchese Filippo Torrigiani.

Il suo settimanale “Corriere Mugellano” (1911-1921) sostenne una politica di neutralismo anche dopo l’entrata in guerra e fu duramente colpito dalla censura tanto che le sue pagine uscirono spesso con articoli vistosamente cassati.

Peccato che il libro non approfondisca il decisivo ruolo svolto, anche a livello locale, dal generale Pecori Giraldi, una personalità che dopo la Grande Guerra fu nella sua terra natale oggetto di una vera e propria venerazione. Nel conflitto comandò la I armata giungendo vittoriosamente a Trento il 3 novembre 1918. Fu governatore militare della Venezia tridentina e poi senatore del Regno. Nel 1926 Mussolini lo nominò Maresciallo d’Italia.


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