FIRENZUOLA – Giovacchino, al secolo Francesco Lodovico Giuliano, nacque il 18 aprile 1865. I genitori sono Ferdinando detto Fiore di Vincenzo, agricoltore possidente di Cornacchiaia e Violante Bellini di Domenico, originaria di Roncopiano. Entrato giovanissimo nell’ordine francescano, insegnò lettere nel collegio di Giaccherino a Pistoia (è lì sicuramente nel 1886), poi filosofia a Roma nel collegio di S. Antonio e teologia a Ferrara e a Firenze.

Nel 1900, mentre era guardiano al convento di Ognissanti, ricevette un telegramma che recitava: “Se è disposto a accompagnare le truppe italiane per Pechino si prepari e parta. Seguono istruzioni”. Chiese consiglio allo zio Adriano Bellini, anche lui nel medesimo convento, il quale gli disse “Non so che consiglio darti, va’, e prega, e decidi da te”. Più che dal consiglio della preghiera Giovacchino si fa attrarre dal fascino del lontano oriente “È uno sfarfallio di visioni esotiche che mi turbina davanti, un mondo nuovo che balla una ridda inverosimile nella mia fantasia… vedo specialmente mari e mari, come ho sognato fin da piccolo… È il sogno della mia infanzia che mi riafferra, che pare prenda consistenza e si avvii a divenire una realtà”. Decise di partire, rispose al telegramma con queste parole che diverranno il suo motto: “Pronto a partire sempre e per dovunque“.
La Cina, in questo periodo, era travagliata da un intenso sommovimento : la guerra dei Boxer. Questa rivolta, che inizialmente aveva lo scopo di deporre la dinastia Ching e di rimettere sul trono la dinastia Ming, acquistò una connotazione fortemente antioccidentale e antimodernista. Iniziò nel 1898 e fu caratterizzata da massacri di stranieri e di cristiani cinesi. Il culmine si ebbe a partire dall’undici giugno 1900,quando vennero attaccate le sedi delle ambasciate straniere a Pechino; ciò determinò l’intervento delle potenze occidentali, tra cui l’Italia; la rivolta fu definitivamente soffocata nel 1901.
Il padre di Giovacchino quando ebbe la notizia della partenza del figlio pare che abbia detto: “Che cos’è questa Cina?”; queste parole si sarebbero adattate benissimo ad ognuno del contingente. Pensate che anche il ministro della guerra aveva del paese, alla partenza da Napoli, una visione distorta, si scusava con i soldati di non averli dotati di artiglieria perché quest’arma sarebbe stata di grande ingombro nelle manovre, in quel paese pieno di risaie; il padre poi annoterà nel suo diario che nel nord della Cina, dove operavano, le risaie “erano immense come quelle della Sila”.

Il 19 luglio 1900 partiva il convoglio italiano per la Cina formato da tre navi: il Singapore, il Minghetti e il Giava e da 83 ufficiali, 1882 sottoufficiali e soldati, da 178 quadrupedi e dal cappellano che all’epoca non era inquadrato nell’esercito e svolgeva il suo ministero volontariamente e senza compenso. Fu salutato dal re Umberto in persona, che sarà ucciso pochi giorni dopo; il contingente italiano ricevette la triste notizia al suo arrivo ad Aden. Lo sbarco fu, dopo circa un mese e mezzo di navigazione, a Taku, dopodiché il raggiunse Pechino (a circa 150 km) in treno. Gli italiani ebbero il compito di controllare la zona nei pressi della caserma di Huang Tsun presso Tien Tsin e di contrastare la resistenza dei Boxer nella zona di Peitang, Paoting Tugtiu e Falgan, località nelle quali in realtà trovarono una scarsa resistenza dei ribelli: “Finché eravamo lontani giuravano e spergiuravano che in quel determinato posto si sarebbero battuti da leoni, appena giunti noi e scambiato il saluto delle armi ci facevano tanto d’inchino e si squagliavano”. Giovacchino al suo arrivo in Cina si aspettava un paese meraviglioso, pensando un po’ a come lo aveva visto Marco Polo; si trovò di fronte, invece, a un paese in piena decadenza, preda delle mire coloniali delle potenze occidentali; si scagliò, anche duramente contro i comportamenti di queste e con l’atteggiamento delle truppe che col pretesto della guerra si abbandonarono a violenze e saccheggi. Confutò le accuse, rivolte dalla stampa europea ai missionari, di essere la causa della rivolta dei Boxer, con un’invettiva dal sapore fortemente anticolonialista: “Furono i missionari, o non piuttosto la diplomazia dei così detti diavoli bianchi che nel 1898 indusse il giovane imperatore ad iniziare la politica di tutte quelle innovazioni progressiste, cui si era dato il Giappone ? …ciò bastò a far insorgere la vecchia China contro la nuova …. con uno strascico di odii anti-stranieri …. E le ferrovie che non rispettano i sepolcreti , e i tunnels e le miniere, che aprono la via a tutti gli spiriti malvagi … a chi si debbono ? … Chi forzò questo popolo ad aprire i suoi porti ai commercianti europei, che si pigliano la polpa e lasciano a fatica l’osso ?. Appena questi commercianti si sono installati … trattano i cinesi come selvaggi, si servono della frusta e del bastone, costruiscono luoghi di passeggio riservati a loro soltanto, cacciandone a bastonate ogni cinese, come un cane rognoso; lasciano ai loro soldati il diritto di maltrattarli quasi impunemente, e al minimo tentativo che un cinese fa per reprimere queste insolenze, ecco la diplomazia in moto, ecco le squadre, ecco l’Europa e l’America a minacciare, a uccidere e a rubare “. Si scagliò anche contro la guerra dell’oppio (tra il 1839 e il 1860 ), che scoppiò in seguito alla imposizione e alla diffusione, da parte della Gran Bretagna, di questa droga all’interno della Cina, con la scusa della libertà di commercio, e che fu premessa e concausa della rivolta anti-occidentale del 1900. La guerra dei Boxer terminò con il trattato di pace del 7 settembre 1901 che sancì la concessione all’Italia del territorio di Tien Tsin, che terrà fino alla seconda guerra mondiale.

A cavallo tra il 1902 e il 1903 il padre Geroni decise di compiere un viaggio attraverso la Cina del nord: “Da quando io sono in Cina ne ho sentite di tutti i colori su questi poveri Figli del cielo, e non so ancora chi sia più vicino al vero, se quegli ottimisti che vedono tutto perfetto in questo paese, oppure quei pessimisti che ne parlano come d’un popolo di barbari. Un viaggetto di quattro o cinque mesi, verso l’interno della Cina, che mi metta a contatto con l’anima di questo popolo ancor vergine da ogni contatto europeo”. Anche in una sua lettera al pievano di Cornacchiaia Stefano Casini palesava l’intenzione del suo viaggio: “Sono tre anni che mi trovo a Pechino e da un momento all’altro potrei rimpatriare. Crede che potrei dire di conoscer la Cina? Ma Pechino è appena la porta dell’impero celeste e le porte si fanno perché si entri”. Oltre a questo aspetto avventuristico, scopo del padre era anche quello di rendersi conto dell’opera dei missionari che avevano subito non solo “La furia sanguinaria dei Boxers gialli”, ma altresì quella ben più amara del boxerismo bianco, che, sui periodici e sui giornali li aveva dipinti come il fior fiore dell’intolleranza e della furfanteria. “Vedere cosa ci sia di vero in un’accusa così grave, mi pareva non solo un diritto, ma anche un dovere, per un sacerdote che si trova nella possibilità di farlo”. Le impressioni del viaggio vengono riportate nel libro “I figli del cielo”.

Padre Geroni sulla nave durante il viaggio verso la Cina

Questo contiene dei resoconti già inviati al giornale fiorentino “L’Unità Cattolica”; articoli che suscitarono delle polemiche: “Come! …un frate parla con tale disinvoltura di gite, di pranzi, di leoni e di leonesse, di uomini e anche di donne? Santi numi! Non sentite che puzza di bruciaticcio?… Quest’allusione poteva benissimo lasciarla da parte, quella descrizione avrebbe potuto farla meno vera, per non dire meno verista, certi usi e costumi poteva lasciarli ai cinesi, e specialmente poteva, anzi doveva non accennare alle donne, che ha incontrato nei suoi viaggi… Almeno ne avesse detto male! Nossignore, ne parla come se fossero creature simili a noi…”. Dopo lunghi ripensamenti decise nel 1906 di dare alle stampe il volume. Il viaggio dura sei mesi, per compierlo si servì di una carovana composta da un interprete, due conducenti, quattro muli e un cavallo. Viaggiò comunque anche in portantina o utilizzando il treno. Prima di partire fece testamento e lo lasciò al capitano che comandava lo spedaletto da campo del contingente italiano. Alla fine di questo viaggio, a Shangai, conobbe una famiglia di missionari protestanti americani: i Pearson, i quali lo convinsero a intraprendere un viaggio in Giappone, addirittura offrendogli il biglietto della nave.

In Giappone ha l’occasione di visitare l’esposizione di Hosaka del 1903. Il resoconto del viaggio venne pubblicato nel libro “Nella terra di Mikado” che uscirà nel 1908. Il padre Geroni visitò anche l’arcipelago della Sonda e l’India, però di questi viaggi non ci ha lasciato alcun resoconto. Tornato dall’oriente ricevette l’onorificenza di Cavaliere di S. Maurizio o Lazzaro. Nel 1907 partì per un viaggio in Egitto e Terra Santa, come testimonia una lettera indirizzata a don Stefano Casini di Cornacchiaia. “Le mando questa mia, dall’antica Tebe dalle cento porte, che ebbe l’onore di essere cantata da Omero ed oggi ha quello di ospitare un suo parrocchiano. Dal Santerno al Nilo, da Cornacchiaia a Tebe: poche parole e molti passi…. Partii da Livorno sei mesi fa, visitai il basso Egitto, passai in Palestina, e su visitai tutti i santuari, tutte le morte città che ebbero importanza nel passato fino al grande Hermon. Poi passai oltre e fui a Damasco, a Balbek, a Emesa, a Talamissus e ad Aleppo, ripiegando quindi verso il Mediterraneo per visitare tutte quelle città costiere che vi fiorirono fino al tempo dei Fenici”. Nel 1911 è in Libia come cappellano militare dell’esercito italiano. Da questa esperienza scrisse il libro “Spigolature Bengasine”. Nel 1914 lasciò la Libia sostituito dal fratello padre Eugenio. L’anno successivo pubblicò il libro “Il vangelo del soldato al campo”; è una raccolta di prediche dal sapore fortemente militarista, elaborate durante la campagna di Libia. Durante la prima guerra mondiale, alla quale partecipa sempre come cappellano, ricevendo la medaglia di bronzo al valore militare, si avvicinò all’associazione nazionale dei ciechi di guerra svolgendo l’attività di ispettore viaggiante. Nell’agosto 1920 partiva per il Sud America, con il compito di raccogliere fondi a favore del comitato pro cechi di guerra di Firenze. A scopo propagandistico, prima della partenza fu girato un film, con la regia di Paolo Azzurri e scritto da Gabriella Neri, dal titolo “Il soldato cieco ossia la rieducazione professionale del soldato cieco”. Fu girato utilizzando 1500 metri di pellicola donata dal generale Badoglio. Questa sua esperienza fu raccolta nel libro “Il mio viaggio in Sud America” che uscì nel 1923. L’ultimo suo libro fu: “Dal mio diario” in cui riassume tutti i fatti salienti della sua vita, dalla spedizione in Cina al viaggio in Egitto e Terrasanta; avrebbe dovuto esserci un secondo volume composto da 25 capitoli dedicati alla prima guerra mondiale ma non vide mai la luce a causa delle cattive condizioni di salute di Giovacchino e poi della sua morte. Il volume fu dedicato al professor Nicola Giannettasio, direttore dell’ospedale di S. Giovanni di Dio, che ospitò per cinque mesi in casa sua il malato padre Geroni. Il ricavato delle vendite del libro andò a beneficio della costruenda Chiesa di S. Antonio da Padova a Montecatini. Morirà il 18 giugno 1926 e fu seppellito nel cimitero della misericordia di Soffiano a Firenze. Nel 1930 venne commissionato un busto di bronzo ad opera dello scultore Piccoli che verrà posto sulla sua tomba e che è ancora conservato in detto cimitero.

Sergio Moncelli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 27 giugno 2018

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