Un copione che drammaticamente si sovrappone ad altre nefandezze tedesche compiute a Pievecchia, a Crespino e in troppe altre località; gli ingredienti sono spesso gli stessi, ma mescolati in modi diversi: un’occupazione militare di truppe che non perdono occasione per dimostrarsi ostili, un motivo che sta alla base dello scontro – in questo caso il possesso di una cavalla che serviva per i lavori del campo e che i soldati vogliono requisire – qualche giovane partigiano un po’ esaltato e armato, il rancore del derubato o di qualche vecchia incattivita, la trasgressione degli ordini che i responsabili delle formazioni partigiane avevano diramato, l’uccisione di qualche milite e la ritorsione pesantissima su inermi civili.
La storia come avete certamente capito racconta di un gruppo di tedeschi che voleva impossessarsi di una cavalla nascosta tra i boschi – presenza che qualcuno aveva spifferato ai tedeschi, chissà perché, per invidia, per vendetta, per accumulare meriti nei confronti degli oppressori – il diniego a volerla consegnare del proprietario, alcuni partigiani accorsi che sparano a due tedeschi, la ritorsione delle truppe naziste accampate a poche centinaia di metri dal luogo della sparatoria.
Sandra Cerbai rievoca e descrive paesaggi, stati d’animo, l’evolversi della vicenda, la paura, atteggiamenti e tentativi di sfuggire alla morte; fotografa un momento ordinario dello svolgersi della vita in quegli anni, al lavoro nei campi o in casa, ai lavatoi o a caccia di selvaggina oppure a cucinare trasformando i poveri prodotti disponibili in cibi per sfamare famiglie numerose, dove l’ingegno e l’applicazione delle donne creeranno la “cucina mediterranea” poi celebrata ovunque. Un mondo in cui c’erano ancora i Sestilio o le
Evelina, Bona, Dosolina e Andreina, dove i contadini avvisavano di presenze inospitali per i partigiani con un lenzuolo bianco sui pagliai o tesi a un filo, scene e fotogrammi che hanno impressionato per sempre la pellicola della memoria della piccola bambina e che rimarranno sulla pelle degli involontari protagonisti per tutta la vita.
Una stagione in cui per caso ci si poteva trovare nell’inferno, fatalmente si poteva morire senza motivo, si poteva cadere sotto l’odio e il disprezzo nazista per la vita altrui, catturati per caso, perché un contadino alza la testa per farsi vedere dalla moglie, o perché non accetta il consiglio di chi suggerisce di andare altrove. Una stagione in cui gli “sciacalli” approfittavano per rubare nelle case, non solo cibo ma ben altro, con i colpevoli che se scoperti rischiavano la fucilazione da parte degli stessi partigiani (come accadde, sempre nel Mugello, al “Tigre” e non solo) attenti a non spezzare il legame con il mondo agricolo da cui erano stati rifocillati e protetti. Un mondo in cui nessuno chiedeva la carta d’identità a chi arrivava nei boschi – mi raccontava il figlio di Pietro Caiani, Gino, anch’esso partigiano – e che hanno talvolta causato guai grossi, la bravata facile, mettendo in ballo la vita degli altri. Come a Pievecchia di Pontassieve.
Una storia di verità che la storia scritta “dopo” aveva omesso, o modificato; storie che hanno ristabilito i fatti per com’erano stati, senza per questo voler minimante giustificare chissaché, o far perdere il senso di dignità che il popolo italiano ebbe dal movimento della resistenza. Anzi, lo stesso ribrezzo e la stessa ira si percepiscono nell’esempio dell’atteggiamento italiano nell’isola greca di Domenikon, dove i nazisti eravamo noi: dispensatori di morte e disperazione. Con qualche inedito di assoluto interesse. Come la figura di Maria Giudici, l’unica donna, di cui non si sapevano troppe notizie e la lettera di scuse del figlio del capitano Luley, uno dei responsabili del massacro.
Una storia di sentimenti, compresa la “fraternità” che accomuna chi soffre, chi ha in sorte un destino crudele, come a voler stringersi tutti insieme per contrastare tanta disumanità. Sono gli sfollati, che si erano recati lì in un posto sicuro, al riparo della guerra, arrivati dai dintorni, come a Torre a Decima, come a Ponzalla, a Pievecchia, che raggiunse il triplo degli abitanti “normali”, e che finiro dritto nell’inferno. Una fratellanza che il racconto sottolinea e che dovrebbe contraddistinguerci sempre, prima che maturi la semina di morte.
Massimo Biagioni
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 7 novembre 2021