MUGELLO – Penso che pochi lettori conoscano il significato del nome “gualchiera” che talvolta viene associato a mulini, case o località. Figuriamoci i più giovani. Eppure, nei secoli passati le gualchiere rivestirono un ruolo fondamentale nel contesto dell’economia rurale. Intanto cominciamo dal nome; “gualchiera” dovrebbe derivare dal germanico “walkan” col significato di “spostamento.” E fin qui, on capiamo ancora un bel nulla, ma vi svelo subito l’arcano.

La gualchiera è un macchinario detto anche follone, o a volte l’intero l’edificio di epoca preindustriale che lo ospita. Dedicato in parte alla lavorazione della carta, era soprattutto usato per l’infeltrimento e battitura della lana. La macchina funzionava con l’energia idraulica e per questo motivo in antico veniva installata vicino a canali e mulini. Pensate, era già in uso in epoca romana e poi longobarda (100-700 d.C.), tanto che una traccia di questo sistema e marchingegno è stata addirittura identificata negli scavi archeologici di Pompei. Il macchinario fu usato sempre nei secoli successivi finendo per dare il nome a tanti luoghi, a cominciare dalle Gualchiere di Remole sull’Arno. Anche in Mugello se ne trovavano diversi sistemati prevalentemente nei mulini; ve ne sono esempi nella zona di Sant’Agata (vedi il Mulino Parrini) e Barberino, probabilmente per il collegamento che la cittadina ebbe con Prato nel trattamento dei filati tra Settecento e Novecento. “Tra stridor di mulini e di gualchiere”, dice il Carducci in una sua bella poesia spiegandoci il mistero, anche se poi quest’attività è stata sorprendentemente dimenticata da tutti in pochi decenni.

Insomma, si può ben dire che un bel pezzo della vita economica antica, almeno fino al Novecento, si svolgeva proprio in questi luoghi, nelle “gualchiere” dove si recavano tutti a discutere di prezzi, raccolti, andamenti stagionali. Soprattutto, si lavorava duramente; gli uomini portavano il grano a macinare, le donne i panni a lavare nella pescaia o nel canale e, come abbiamo visto, arrivavano pure i grandi sacchi di lana da infilare nella benedetta “gualchiera”. Va detto per concludere che l’igiene non regnava di certo a motivo di tutta quella promiscuità di uomini e materiali. Gli ambienti erano caotici e il rumore dei macchinari (macine, magli, etc..) davvero infernale.

Nota dell’autore: Nel lontano 1333 Giotto era appena tornato a Firenze da Napoli quando una rovinosa alluvione rischiò di danneggiare anche la sua bottega zeppa di opere pregiate. Firenze fu infatti colpita da questa calamità che, oltre a danneggiare la città, distrusse tutti i mulini e le qualchiere all’epoca collocate su zattere di legno ancorate alle sponde dell’Arno. Una delle cause della calamità fu attribuita proprio a questa scomoda presenza, in quanto avrebbe ostacolato il libero corso del fiume. Il comune deliberò che nessuna nuova gualchiera potesse essere ricostruita per 400 braccia a valle del Ponte alla Carraia e per 2000 a monte del Ponte di Rubaconte (Ponte alle Grazie). Si pensò che i governanti avessero preso la palla al balzo. Era da tempo che volevano porre rimedio alla disastrosa situazione igienico sanitario con quel continuo battere dei magli giorno e notte che non facevano riposare. Inoltre, il grande uso di orina come ammorbidente delle fibre di lana, vi assicuro che non rendeva l’aria per niente profumata e salubre.

Fabrizio Scheggi
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 5 dicembre 2019

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