“ Babbo? “
“ Cosa vuoi? “
“ Ho da dirvi una cosa …”
“ Dimmi “
“ Io mi fo suora … suora missionaria “.
Il Sarto alza di scatto la testa, fissa la figliola, che s’è rimessa a cucire e ha il viso rosso e i labbri tremanti per lo sforzo; si fa rosso, trema anche lui, e poi (in un attimo, quale battaglia e quale vittoria): “ che Dio ti benedica!”
E l’abbraccia e piangono insieme.

È un brano del racconto di Tito Casini, “Il sarto”, nel libro “Il pane sotto la neve”, pubblicato nel 1935. Racconta del padre di Giulia Zappoli, divenuta suora, col nome di Maria Cesira. Sergio Moncelli ricorda la biografia della religiosa di Cornacchiaia, e ripropone le pagine di Casini, nitida testimonianza di un mondo e di una cultura ormai pressoché scomparsa, permeati di una forte religiosità.


Suor Maria Cesira Zappoli di Firenzuola.
Veduta del Cerro, presso Cornacchiaia, villaggio natale di suor Maria Cesira

FIRENZUOLA – Giulia Zappoli nacque il 24 ottobre 1904; i genitori, Domenico e Luisa Bertaccini, abitavano al Cerro nei pressi di Cornacchiaia. Il padre di professione faceva il sarto, per passione suonava un violino che si era costruito da solo.
Giulia, ancora sedicenne, lavorò nella scuola di ricamo, che operava nella sua parrocchia, dove ebbe anche l’incarico di consigliere.
Nel 1922 assistette casualmente, nella basilica della Santissima Annunziata, alla cerimonia di saluto che la città di Firenze tributava a quattro suore delle Mantellate di Pistoia, che partivano come missionarie nello Swaziland, nell’Africa del Sud. Rimase molto colpita, tanto che, il 18 marzo 1923, entrò fra le suore Mantellate; il 25 maggio 1924 fece la sua vestizione religiosa, prendendo il nome di suor Maria Cesira, e la professione il 26 maggio 1925.
Partì per lo Swaziland il 19 marzo 1926,qui svolse l’incarico di responsabile dell’orto e, per un periodo, anche della cucina della comunità; ebbe modo di mettere a frutto gli insegnamenti della scuola di ricamo della sua Cornacchiaia, lavorando agli arredi sacri della piccola missione ma anche per dei signori inglesi che abitavano nei pressi. Questi lavori materiali non la distolsero dall’opera di evangelizzazione e di assistenza, che perseguì con grande spirito di sacrificio, nonostante la malattia che l’aveva colpita, fino alla sua morte che avvenne il 17 febbraio 1933.


Un ricordo di Domenico, il babbo di Giulia – suor Maria Cesira, si ritrova in un bel racconto racconto di Tito Casini, tratto dal suo libro “Il pane sotto la neve“. Tito ne tratteggia la figura con delicatezza e rispetto; ci descrive una persona semplice, che nonostante le difficoltà che incontra ogni giorno, riesce ad avere una vita piena, aperta agli altri e alle cose belle che danno un senso al nostro vivere, come la lettura e la musica; riesce a gioire quando la figlia farà una scelta per lui dolorosa e a coltivare delle amicizie profonde, a dare, insomma, un senso alla sua esistenza mettendosi nelle mani del Signore e a far si che anche la povera vita di una persona umile valga la pena di essere vissuta.

Sergio Moncelli

 

IL SARTO
di Tito Casini

Oggi, per riposarmi, voglio parlare del Sarto. – Se avessi la fede del Sarto….- Quante volte, nella mia vita, mi scappa detto così! E poi, se ci penso bene, ho quasi paura. Aver la sua fede vorrebbe forse anche dire aver le sue prove. Pover a me! E tuttavia, eccolo lì: sereno, ridente… Ma sì, felice! Chi non lo invidierebbe, a vederlo!

Lo veggo tutte le domeniche, alla messa e alle funzioni, insieme ai suoi due compagni “magi”…
Li chiaman così, “i re magi”, per soprannome: lui, sarto, un altro che fa il calzolaio e un terzo che lavora per conto proprio due o tre staia di terra. Tutti e tre vecchietti, tutti e tre della medesima borgata – gli unici vecchi della borgata – ,tutti e tre religiosi, onesti, queti, all’antica, uno un po’ sordo, uno un po’ cieco, uno un po’ balbo, grandi amici fra loro, compagni nell’andare alla chiesa (unica loro gita oramai), compagni nello starvi, compagni nel ritornare. A vederli, arrivare o partire, in fila, appoggiati al loro bastone, tutti e tre un po’ curvi, lenti, solenni, l’immagine dei re magi si presenta spontanea, tanto più con quei loro occhiali che fan pensare alla scienza, e, in mano, quel loro astuccio del tabacco dal quale ogni tanto, fermandosi, attingono tutti e tre. I loro stessi nomi, Domenico, Adeodato, Adenafo (forse alterazione di Abdenago), par che richiamino quelli di Melchiorre, Gaspare, Baldassarre. E i loro discorsi, le loro massime, i loro stessi vocaboli… mi trovai a scender con loro l’altra domenica sera. A sentirli parlare, mi pareva d’esser tornato indietro una ventina di secoli, e quasi mi veniva fatto, ogni tanto, di guardare il cielo per vedere se una stella ci precedesse.

Il Sarto è il più povero di questi “re“, ricchi solamente di fede e di pace. Una povertà tutta lieta, una povertà francescana e nello stesso tempo ingegnosa. Gli occhiali, per esempio, hanno perduto le stanghette, e il Sarto rimedia con due licci, che annoda dietro la nuca. Un manico di ombrello da donna, di nichel, sottile, curvo e forato, può far benissimo da cannuccia alla pipa … Il mestiere gli rende poco, ora specialmente che è vecchio e che i gusti, anche in quanto a vestiti, si son fatti, anche in campagna, anche in montagna, più civili. Non son più i tempi delle mezzelane e dei bigelli, i tempi di Giannella e Gigiòla: il mondo, in trenta o quarant’anni, ha camminato ( se non l’ha presa addirittura di corsa, anzi a rotta di collo ), mentre il Sarto è rimasto fermo: fermo ai suoi disegni, ai suoi tagli, alle sue cuciture, e anche – aggiungiamolo – ai suoi prezzi. Pochi vecchi del popolo – tra cui, si capisce, i due “re” suoi compagni – formano ormai la sua clientela, una clientela tutta dell’opinione che il vestito conti meno della persona. Vuol dire che il mestiere gli lascia del tempo libero, ed egli lo impiega in altri lavorucci, seminare a mezzo un campo di patate, raccattare al terzo una strisciola di marroni, e simili, che, uniti al mestiere, gli dan di che vivere. Del tempo glien’avanza lo stesso, e il Sarto va a trovare i malati ( per i quali, nel popolo, è ritenuto come un mezzo pievano, tanto che, se uno muore e il pievano è via, corrono a chiamar lui che venga a raccomandargli l’anima ) o si mette a dir rosari o a leggere i suoi libri, che son press’a poco quelli del sarto manzoniano. Glien’avanza ancora? Certamente, specie in questi giorni d’inverno; e il Sarto, dopo aver lavorato, pregato, meditato sulle vite dei santi, si darà a un po’ di musica mettendosi a suonare il suo violino …. Se gli piace la musica? Era una volta a cucire in una casa di signori. Nella stanza accanto a quella in cui lavorava, uno della famiglia si mette a suonare il violino … Il Sarto regge …. e poi va di là:
“ Ecco se lei non posa quello strumento, io non lavoro più”.
“ Non lavorate più? Oh, bella! E perchè?”
“ Perchè questa musica mi tocca il cuore e non ho più la forza di reggermi”.
Improvvisandosi liutaio, se n’è fabbricato uno da sé, e se lo suona, povero Sarto, selo suona.
Ma il suo strumento preferito è la corona, le sue suonate più frequenti – lo sanno bene i suoi vicini di casa – sono paternostri e avemmarie e requie e requie e requie per tutti que’ suoi figliuoli che Dio gli ha dato e ritolto.
Dieci n’ebbe, sette figli e tre figlie, come l’uomo retto di Hus, e non ne ha più uno. L’ultimo maschio morto in guerra; l’ultima femmina …. Ah, quella sua Agnesina (il nome della figlia più piccola in realtà era Giulia, nel periodo a cui si riferisce il racconto, le tre figlie erano tutte vive. Ndr)!
Non gli rimaneva dunque che quella, la più piccola e la più cara. Era la sua consolazione, la sua conversazione e il suo aiuto.
Lavoravano insieme, e il lavoro, allora, non mancava: lei sapeva cucir di fine (aveva imparato al laboratorio di ricamo di Cornacchiaia. Ndr). Ora, un giorno che lavoravano insieme, zitti, tutti e due curvi sul loro pezzo,lei, a un certo punto,leva il capo, guarda un po’ suo padre, in un certo modo, e poi:
“ Babbo? “
“ Cosa vuoi? “
“ Ho da dirvi una cosa …”
“ Dimmi “
“ Io mi fo suora … suora missionaria “.
Il Sarto alza di scatto la testa, fissa la figliola, che s’è rimessa a cucire e ha il viso rosso e i labbri tremanti per lo sforzo; si fa rosso, trema anche lui, e poi (in un attimo, quale battaglia e quale vittoria):
“ che Dio ti benedica!”
E l’abbraccia e piangono insieme.
Dopo un anno (lui sì’è già abituato a star solo) la figliola ritorna a casa per il mese di prova. Sa ancora cucire e aiuta come prima suo padre. Discorrono, lavorando, di missioni, d’Affrica, d’infedeli, di martiri. A un certo punto – è l’ultimo giorno, son l’ultime ore che stanno insieme- la figliola, levando il capo e guardando suo padre (come quella volta l’anno prima, ma con più forza negli occhi):
“Che bella cosa, babbo, se io potessi morir martire!”
E il Sarto, lasciando andar di scatto il lavoro, la fissa, ma orgoglioso, un istante…
“E che bella cosa se io potessi diventare babbo di una martire!”
E si inginocchiano e pregano insieme.
Da un anno che è partita per l’Affrica, egli non ne sa più nulla. Dio ha forse esaudito il loro desiderio? L’altro giorno lo vidi, insieme agli altri due “magi”:
“E Agnesina, dunque, avete avuto ancora notizie?”
Ed egli, sorridente, sereno:
“No, nessuna notizia…Ma che importa? Starà bene di certo: è in mani meglio delle mie: è nelle mani di Dio…”
E riprese via co’ i suoi compagni, che tentennavano il capo in segno di approvazione.

© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello –  3 febbraio 2020

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