Ci chiediamo però come sia possibile conciliare questa dimensione dove l’essenza della corporeità viene soppiantata da un mezzo busto bidimensionale, da un corpo la cui pelle presenta pori chiusi e inodore, con la necessità del contatto, inteso nel senso etimologico di cum tangere, propria del teatro.
Dove è finito il corpo dell’artista? Dove è il corpo del pubblico?
Il corpo dell’artista sembra anestetizzarsi e assuefarsi, mentre quello dello spettatore inizia a vivere uno stato di ipertrofia e l’accecamento aumenta sempre di più.
Vogliamo davvero affidare alle macchine la nostra corporeità e il modo abituale di abitare la scena? O sarebbe meglio tutelare il teatro, l’arte, da queste logiche che dominano la nostra società in cui l’accelerazione è la forza motrice?
L’arte è un luogo di risonanza, un ambiente in cui stabilire il contatto di noi stessi con il mondo; un mezzo per educare la nostra immaginazione, al fine di creare nuovi mondi. Il teatro mostra gli stereotipi, le convenzioni e le cornici mentali della società per poi distruggerli e neutralizzarli.
L’arte crea interstizi in cui è possibile smarrirsi. Riappropriamoci della nostra corporeità, della nostra carne al fine di liberarci da un corpo violento, per utilizzare una nozione cara a Judith Butler, determinato e costretto dalla “megamacchina”, che ci rinchiude e ci porta ad uno stato di passività. L’Arte è una forma di cura di noi stessi e dell’ambiente in cui viviamo.
In attesa di tempi migliori, in questo tempo sospeso, rubato, non resta che cercare di re-inventare un nuovo modo di vivere il teatro per far sì che l’attesa che non sia vana, ma sia una dimensione di possibilità, tenendo conto delle eventuali problematicità.
Barbara Carulli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 15 dicembre 2020