BORGO SAN LORENZO – Federica Di Martino, celebre attrice di teatro diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, analizza da varie angolature il lavoro dell’attore, andando a definire i punti cardini del suo mestiere. L’attrice ha lavorato anche in cinema e in televisione, ma predilige il teatro quale luogo di espressione della realtà e strumento di denuncia delle ingiustizie. Infine, dà un incoraggiamento ai ragazzi mugellani che vogliono “spiccare il volo” per studiare recitazione.

Molti si sono interrogati sulla figura dell’artista. Secondo Merleau-Ponty, l’attore si mobilita per produrre i suoi ruoli e, così facendo, vive nell’irreale. Dunque, è lui che realizza se stesso nel personaggio e non viceversa. Si ritrova in questa concezione? Sì, molto: questo mestiere è meraviglioso proprio perché recitare significa vivere molte altre vite. Ci consente di immaginare noi stessi nelle vite degli altri, in situazioni totalmente diverse da quelle in cui ci siamo trovati.

Ora si parla molto di distanziamento contrapposto al mondo del teatro che, invece, tramanda calore e dunque contatto. Ciononostante, Eduardo De Filippo diceva che in teatro è forte anche il valore del distacco, che deve esserci necessariamente fra opera e pubblico, fra opera e drammaturgo, fra attore e personaggio. Quindi, il teatro può dirci qualcosa anche su questo? Sì, certamente. Ciò che si verifica in teatro ha un sapore rituale, nasce dal comune fruire ma ognuno vive emozioni individuali, il che lo porta a distaccarsi dagli altri. La percezione è unica ma sono diversi gli strumenti emotivi che ciascuno utilizza. Dunque, avviene un vero e proprio distacco dalla comunione.

Una delle sue interpretazione più conosciute è la Medea, diretta da Gabriele Lavia, in una versione in cui molti passaggi vengono attualizzati con scelte audaci e dense di spirito critico. C’è anche una scena di nudo in cui traspare tutta la dignità e la forza del personaggio. Pur essendo lontani dall’idea di nudo che aveva Diderot, il quale ricercava una nudità non evidente, tuttavia si può notare quel valore di verità da lui indicato per cui nessuno oserebbe definirla una scena spinta. È dunque vero che il modo in cui viene trattato un argomento ha un peso enorme sul giudizio? Abbiamo fatto due versioni di “Medea”, che però avevano gli stessi valori in comune, poiché il testo, del V secolo a. C, ha messaggi contemporanei. Il regista ci aveva chiesto di fare riferimenti a fatti di cronaca, compaiono infatti anche rimandi al delitto di Cogne. In uno degli ultimi allestimenti, Giasone chiede a Medea perché abbia ucciso i figli e lei risponde “per farti soffrire”, che è proprio il messaggio che un assassino scrisse alla moglie. La nudità rappresentava il bisogno di lavarsi di dosso un crimine, che è un modo di fare antico e moderno, ricorda Lady Macbeth. L’acqua è un elemento forte, ha un anelito purificatore, spesso gli assassini lavano tutti gli oggetti intrisi di sangue. Nella scena in cui Medea fa la doccia ciò che desta scandalo non è il nudo, ma l’atteggiamento di lavarsi di dosso un crimine che l’accompagnerà per tutta la vita.

Lei ha diretto “Cronaca di un amore rubato”, tratto dal libro di Dacia Maraini e ha parlato di una ragazzina stuprata che, nel momento in cui avviene lo stupro, perde il suo posto nel mondo, forse morendo per sempre. Moravia ne “La ciociara” dice che una donna molestata perde la sua onestà, ovviamente secondo il modo di ragionare del tempo. C’è qualche attinenza con quanto da lei affermato? Ho diretto questo spettacolo dopo essere rimasta molto colpita da un fatto realmente accaduto. Nel 2007 una ragazzina venne violentata e questo fatto ebbe una forte eco mediatica perché il sindaco usò i soldi del Comune per pagare la difesa legale degli aggressori. Le persone del posto, intervistate dagli inviati della televisione, attribuivano tutta la colpa a lei perché aveva la minigonna. In questo senso, l’opera da me diretta, basata sul libro di Dacia Maraini, ha molto a che vedere con ciò che afferma Moravia, poiché la ragazza aveva perso la sua onestà sociale, il suo abbigliamento l’aveva resa una poco di buono. L’ho trovato agghiacciante. Infatti, per mettere l’accento proprio sul fatto che avesse perso l’onestà, nello spettacolo lei non aveva voce, parlavano solo gli altri.

Dopo lo scorso lockdown è ripartita a fare spettacoli da L’Aquila. Ha questo un valore simbolico? Per me lo ha, si è voluto dare un forte segnale. Il clima era permeato dalla volontà di ripartire. Sono stata felice che, nel post pandemia, mi abbiano chiamata da una città nota proprio per la sua determinazione.

Lei ha dovuto spostarsi per studiare in Accademia. Anche molti giovani attori del Mugello dovranno lasciare le loro case se vorranno seguire la loro vocazione. Quali sono, secondo lei, i ricordi e i valori dei paesi di campagna che un attore deve sempre portarsi dietro? Mi immedesimo in questi ragazzi, poiché anch’io vengo da un piccolo paese in Abruzzo. Le origini fanno parte di un background archetipico. La vita ci spinge sempre fuori, ma noi ci portiamo sempre dietro qualcosa. Del luogo inteso dal punto di vista fisico, mi sono portata dietro l’odore del mare, l’immagine del corso cittadino da cui volevo uscire, ma mi piaceva restarci al tempo stesso poiché mi “coccolava”. Poi ovviamente non si prescinde dall’educazione che si è avuto. Sono molto legata alla mia famiglia, a cui devo molto poiché mi ha permesso di tentare l’esame in Accademia. Mi auguro che tutti i giovani possano avere qualcuno che li sostenga e che li inciti a spiccare il volo.

Caterina Tortoli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 30 novembre 2020

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