VICCHIO – La reclusione forzata della scorsa primavera ha permesso a tanti di riprendere in mano libri da tempo riposti sugli scaffali e talora appena sfogliati o letti parzialmente. Mi è successo con la mirabolante Vita di Benvenuto di maestro Giovanni Cellini fiorentino (scritta per lui medesimo in Firenze), compilata dall’artista per autoglorificarsi come “il primo omo del mondo” ed esaltare le sue ineguagliabili virtù creative e tecniche, destinate ad affermarsi a dispetto dell’avversa fortuna e dei nemici di turno perché – è una delle sentenze celliniane – “Idio tien conto de’ buoni e de’ tristi e a ciascun dà il suo merito”. Una lettura davvero avvincente che ha spinto un decennio fa il poliedrico Marco Messeri a farne un bel romanzo dal titolo Vita allegra di un genio sregolato (edizioni Skira, 2011).

Dopo le romanzesche avventure romane (memorabile l’evasione dalla prigione di Castel Sant’Angelo) Cellini ripara in Francia lavorando per Francesco I, un soggiorno che rimpiange a lungo per la munificenza del monarca che gli batteva la mano sulla spalla chiamandolo “mon ami”. Nel 1545 ritorna nella sua città natale, dove il duca Cosimo I gli affida l’incarico di eseguire la statua del Perseo da collocare nella Loggia dei Lanzi per celebrare il potere dinastico dei Medici. La realizzazione dell’opera, avvenuta nel 1549 è un’impresa memorabile, rievocata con straordinaria tensione emotiva e bravura letteraria.
Superata questa prova e ottenuto il plauso dei fiorentini, non cessano però le incomprensioni con il duca, attizzate dalla malignità degli artisti locali e dalle trame dei funzionari di corte. Dal 1558 inizia a scrivere (e in parte a dettare) la cronaca della sua vita, fino al suo viaggio a Pisa nel 1562, con diverse lacune e omissioni, comprese le condanne per sodomia che gli costano varie multe e l’imprigionamento nel carcere delle Stinche a Firenze.
L’intento apologetico delle memorie è fin troppo chiaro: il protagonista è un martire della fede, eternamente in conflitto con il mondo circostante, ostacolato da uno stuolo di uomini invidiosi, sorretto però dalla convinzione che il “Dio della natura” lo aiuterà a superare le innumerevoli traversie.
Lo stile sciolto del racconto è quello del linguaggio parlato, ben comprensibile ai toscani e ancor più familiare a noi mugellani che conserviamo molte tracce di un simile eloquio (ma per quanto?). Ne offro alcuni esempi: l’esule fiorentino Baccio Bettini è una persona che ha “un capaccio come un corbello”; un soldato incaricato di ucciderlo assicura che l’impresa gli pare “facile come bere un uovo fresco”; è accusato di aver ridicolizzato il papa Paolo III affermando che il suo triregno gli “piagne in testa” facendolo sembrare “un covon di paglia vestito”; il medico chiamato d’urgenza dall’amico che lo dà per morto risponde che è inutile che intervenga perché non si può pensare che abbia la medicina di “soffiare in culo” a qualcuno per renderlo vivo.
Frequente l’uso di diminutivi in funzione polemica: il tirchio Lattanzio Gorini era un “omiciattolo con certe sue manine di ragniatelo e con una vociolina di zanzara, presto come una lumacuzza”. Ai suoi oppositori riserva vocaboli storpiati per cui Baccio Bandinelli (al quale il duca Cosimo aveva commissionato per migliaia di ducati “certe brutte operaccie di scultura” come l’Ercole e Caco) si merita l’epiteto di “bestial Buaccio Bandinello”. Risparmiato dal suo furore omicida solo per un provvidenziale intervento divino, il rivale viene pubblicamente dileggiato con male parole: se alla statua di Ercole si togliesse i capelli “non vi resterebbe zucca che fussi tanta per riporvi il cervello”; ha una faccia che non si sa “se l’è di omo o se l’è di lionbue… male appiccata in sul collo”, “spallacce somiglianti a dua arcioni d’un basto d’asino”, muscoli “ritratti da un saccaccio pieno di poponi” e via denigrando.
Alle metafore sarcastiche e offensive fanno da contrappunto le notazioni affettuose su parenti ed amici. Quando da giovincello si trova a Pisa a imparare l’arte dell’oreficeria suo padre gli scrive: “Mi pare essere senza il lume degli ochi il non ti vedere ogni dì, come far solevo”. Nei confronti del quattordicenne Paulino, che ha preso in bottega come fattorino, il Cellini nutre “tanto amore quanto in un petto di un uomo rinchiuder si possa”.
Una questione che ha sollevato molti dubbi sulla veridicità dei fatti narrati è il tentativo di avvelenamento che subisce nel 1560 da parte del Sbietta, soprannome di Piermaria di Vespasiano Ricchi di Anterigoli (località poco distante da Ampinana). Con la complicità del fratello prete, Ser Filippo, costui persuade il Cellini ad acquistare la rendita del podere La Fonte e insiste perché venga a Vicchio a prenderne visione. Qui lo ospita facendogli “le maggior carezze del mondo” insieme alla moglie e poi lo invita a cena. A condimento del lesso i due gli fanno assaggiare uno scodellino di salsa, “fatta molto bene e molto piacevole da mangiare” contenente “silimato”, un mortale solfato corrosivo. Durante il viaggio di ritorno alla sua villa di Trespiano il disgraziato Cellini avverte bruciori allo stomaco e nella notte è travagliato da gran diarrea e infiammazione anale. Subito si rammenta delle avvertenze che gli avevano rivolto sia il lavoratore del podere della Fonte che l’inquilino della sua casa di Vicchio: entrambi avevano sentito il “pretaccio” Ser Filippo vantarsi della furberia del fratello che aveva promesso di dare i prodotti del podere “a un vecchio a vita sua, il quale e’ non arriverebbe all’anno intiero”. Al capezzale del malato accorrono due medici ma non concordano affatto sull’origine del malanno, uno lo attribuisce al veleno propinato dai ribaldi vicchiesi ma è subito smentito dall’altro che dichiara: “Forse fu egli qualche bruco velenoso”.
Uno studioso del Cellini, Piero Calamandrei, ha affrontato la questione dell’avvelenamento in un saggio del 1955 e nello spulciare le carte notarili e gli atti dei processi giudiziari di quell’epoca non ha trovato traccia di accuse di veneficio arrivando alla conclusione che l’idea del “silimato” è solo una fantasticheria per mascherare una solenne indigestione.
C’è anche un’altra ipotesi, cioè quella di un involontario infortunio culinario dovuto all’uso di recipienti di rame da parte della cuoca. La spiegazione, forse credibile, è stata avanzata già un secolo fa dallo scrittore mugellano Giuseppe Baccini che essendo farmacista aveva una certa competenza sulla tossicità degli utensili di rame con alcuni cibi, soprattutto derivati dal latte. Io posso affermare di averne esperienza diretta perché da bambino fui ricoverato in ospedale insieme ai soli familiari che avevano mangiato del formaggio pecorino contaminato dal rame!
Una pulce nell’orecchio ce la mette lo stesso Cellini alla fine del libro quando rammenta il contenzioso legale intentato allo Sbietta perché il podere della Fonte gli fruttava la metà di quanto convenuto e insinua che il magistrato chiamato a sbrigare la causa, un tal Federigo de’ Ricci, abbia impedito una positiva sentenza perché “si serviva di quel pecoraio”, cioè dell’imputato. Non ci spiega infatti perché, dopo aver avanzato queste calunniose accuse di sodomia (proprio lui!) abbia commesso poco dopo, nel dicembre 1566 per sua stessa ammissione “un altro errore”: conclude con lo Sbietta un altro affare comprando da lui (il mancato omicida!) mezzo podere del Poggio che confinava con quello della Fonte già di sua proprietà. Una cosa è certa: non sapremo mai la verità su questa vicenda.
Adriano Gasparrini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 7 Luglio 2020