Fu quella, un’estate fin troppo generosa di sole, fin troppo prolissa, ma incapace di curare, con la sua paziente lunghezza, le ferite, così profonde, prodotte dall’inverno. Nella prima metà di settembre i meriggi erano ancora molto caldi, ma poi l’aria si faceva velata, vellutata, carezzevole, ed invitava a godere la campagna prima del calar del sole, prima cioè che le braccia, ancora scoperte, si sentissero pizzicare dai primi brividi autunnali, accompagnati da un diffuso fruscìo delle foglie che scendeva dalle criniere selvose lungo il dorso delle colline e si distendeva lontano per il fondovalle. Era proprio con le ultime luci che l’anima declinante dell’anno usciva dal suo letargo per scorrazzare follemente tra le abbondanze dell’estate e poi allungarsi e coprirle con la sua vasta ombra irrequieta. Le alte piante cominciavano a stormire, prima con lievi tremolii, poi con soffi che si facevano più sostenuti ed intensi col crescere dell’oscurità, fino a che non si suscitava nelle foglie e nei rami quel respiro prolungato,compatto e profondo, che sembra emanare dai polmoni sotterranei della notte.
Oltrepassata la metà del mese, il cielo era frequentato da nuvole variabili e leggere, ma qualche volta poteva rabbuiarsi dalla parte di Monte Senario o di Monte Giovi, e liberare un’acquata, accompagnata da raffiche di vento e da un momentaneo calo della temperatura. Erano piogge dalla furia intensa ma breve, che non duravano molto più a lungo delle sghignazzate delle anatre che le annunciavano. Erano piogge che si esaurivano immancabilmente prima di raggiungere il capoluogo, la cui immutabile anima agreste s’irritava di venir sempre spruzzata ai margini.
Alla fine del mese, in quasi tutta la vallata, non era ancora caduta una goccia d’acqua, e la siccità, oramai calamitosa per i campi, tranne che per la vendemmia dolcissima, minacciava seriamente le riserve idriche, già razionate ed ipermedicate. L’autunno era solo vaghi sentori, anche se non ci voleva una sensibilità speciale per captarlo. Infatti, sebbene l’estate continuasse fulgida e rovente nel pieno del giorno, a sera scendeva sugli occhi un velo: quei vapori che allontanavano le montagne e ne sfumavano i volumi e il profilo,, erano già le cateratte di quella lunga caligine che avvolge spesso il Mugello, tra Ottobre e Marzo, come se questa valle fosse un’enclave atmosferica della nebbiosa Padania.
Il ripristino dell’ora solare portava presto la notte, sì che il professore, prima di adattarsi al nuovo orario, fu sorpreso un paio di volte dall’oscurità, mentre rincasava dalla passeggiata. Quando passava sotto il muro del parco, sentiva sopra di sé, in alto, nell’aero folto, uno svolazzare cieco ed impacciato di grossi uccelli che cercavano un sostegno tra le frasche e accompagnavano la laboriosa ricerca coi loro schiamazzi gutturali.
Il tratto di strada che lui percorreva (dal punto in cui lasciava la macchina, su un margine erboso presso una fila di cipressi, fino a dove moriva l’asfalto: quattro chilometri, fra andare e tornare, che spesso, in parte, ripeteva) era assolutamente privo di sorprese. Motorizzate o a piedi, s’incrociavano sempre le stesse persone, conosciute almeno di vista. Nessun turbamento, quindi, che fosse provocato dall’esterno, tranne qualche tuffo al cuore, talvolta, per il frullo metallico dei fagiani che decollavano all’improvviso sbucando in aria dai campi di spighe o magari ad un passo da lui, proprio ai bordi della strada, nascosti dietro il viluppo di rovi, vitalbe, e forasacchi, alto e folto specie nella stagione più verde. In giornate molto ventose, da una casa colonica abbandonata,di quelle situate lungo il percorso, veniva uno sbattere violento ed irregolare di imposte, ma era un elemento scenografico che cadeva nel vuoto, perché il contesto ambientale non suggeriva nulla di sinistro. Lo stesso cimiterino, anch’esso ormai fuori uso,appartenente alla parrocchia di Montefloscoli, coi suoi muretti bassi e scortecciati e gli spioventi della cappella che emergevano a fatica dalle biade vigorose, infondeva da lontano come un brivido di vita rinascente e, a spingersi fin davanti al suo cancello scardinato e arrugginito, pareva di percepire un segreto colloquio di lapidi e si poteva ricevere una strana sensazione di dolce e consolante familiarità con la morte.
(Roberto Paoli, 13-VI; 18-VI-1989)
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