Chiesa di San Bartolomeo a Molezzano
VICCHIO – Molezzano è un bella località di aperta campagna nel territorio di Vicchio. Siamo a circa sei chilometri dal capoluogo, in area collinare preappenninica, lungo la strada comunale che sale a Gattaia e alle falde meridionali dell’Appennino di Casaglia.
Complessa e di difficile lettura la storia più antica di questa piccola realtà rurale che vanta tuttavia tracce sporadiche del periodo etrusco, naturalmente declinanti in ulteriori elementi identificativi dell’epoca latina e nella successiva presenza longobarda. Più nitido e documentabile il periodo medievale per l’operato dei Conti Guidi che vantavano molti diritti sul territorio, controllandolo dalle loro rocche di Gattaia e Pagliericcio.
Agli stessi Guidi apparteneva anche il castello di Molezzano, ceduto nel 1218 alla Mensa Vescovile di Firenze, quando ne era vescovo Giovanni da Velletri. Nonostante molti beni della zona appartenessero inizialmente alla Curia Fiesolana, il vescovado fiorentino era riuscito nel tempo, attraverso acquisti e donazioni, ad impossessarsi dell’intera Corte di Molezzano. Una presenza che si sarebbe consolidata nel corso del XIV secolo con la costruzione di altre strutture fortificate a protezione del palazzo vescovile già presente non lontano dalla chiesa.
Le prime sporadiche notizie sulla chiesa di San Bartolomeo sembrano risalire al Mille, confermate poi nelle Rationes Decimarum del 1276-77, quando la parrocchiale figurava ormai inserita nel piviere di San Cassiano in Padule e pagava una decima di 20 staia di grano. Nel 1336 le sarà annesso il popolo della distrutta chiesa di San Martino a Pagliericcio e nel 1383 subirà un primo radicale restauro, come si legge in un documento dell’11 settembre di quello stesso anno, conservato nel fondo Diplomatico dell’Archivio di Stato fiorentino. Questo modesto edificio di culto, del quale non si conservano tracce della primitiva identità strutturale, avrebbe subito nel tempo ripetuti danneggiamenti dovuti alla vicinanza del torrente Muccione e alle sue frequenti esondazioni che nel 1536 e 1557 si rivelarono così violente da lederne per sempre la staticità strutturale.
La chiesa fu ricostruita nel 1568 in posizione più elevata, al sicuro dalle piene, in località detta Campo de’ Bartoli e benedetta lo stesso anno da Mons. Antonio Altoviti, in occasione della sua Visita Pastorale. Ristrutturata nell’Ottocento, la chiesa si mostra oggi con facciata a capanna, sulla quale si apre un bel portale di pietra voluto da Bartolomeo Cecchini nel 1585, committente e rettore pro tempore.
Sopra la trave, il piccolo tabernacolo con colonnine ospitava in passato un bassorilievo di terracotta con l’immagine di Sant’Antonio Abate, traslato ora sulla parete sinistra all’interno della chiesa.
Nella parte superiore della facciata si apre una finestra rettangolare con vetrata policroma e l’immagine di San Bartolomeo, dono della Fattoria Poggio Bartoli, apposta nel 1964. Il campanile è a pianta quadrangolare e si appoggia al fianco sinistro dell’edificio, munito di quattro campane e coperto a padiglione di tegole e coppi.
L’interno mostra una semplice navata, coperta a capriate e pavimentata in cotto. Sulla parete destra si aprono quattro arcate a tutto sesto che collegano l’aula principale alla vecchia cappella della Compagnia, dando origine ad una seconda navata che altera non poco l’architettura originale della chiesa.
Realizzata sul finire dell’Ottocento o nei primi anni del secolo successivo, questa seconda navata conserva un piccolo altare con trabeazione modanata, sorretta da paraste con capitelli ionici.
Sopra l’altare una piccola teca di legno accoglie un Ecce Homo in gesso policromo. Tra gli altri arredi, un confessionale di legno ottocentesco e una statua del Sacro Cuore databile al XX secolo.
Sulla parete destra dello stesso ambiente, si apre la cappella del Fonte Battesimale, delimitata da un cancelletto di ferro battuto e provvista di un piccolo altare con edicola in piastrelle di terracotta invetriata, raffiguranti San Giovanni Battista.
La navata principale non mostra elementi architettonici di rilievo ad eccezione di una nicchia centinata in prossimità del presbiterio che ospita una piccola composizione di statue policrome con la Madonna, Gesù fanciullo e l’agnello, simbolo di purezza e del sacrificio.
Il presbiterio è rialzato di un gradino con fronte curvilineo e delimitato da un grande arco che si appoggia su pilastri rettangolari. Al centro è l’Altar Maggiore, composto da una semplice mensa sorretta da colonne cilindriche e orientata verso il popolo secondo i canoni dell’ultima riforma conciliare. Sul fianco sinistro del presbiterio è sistemato il tabernacolo in pietra serena con la scritta Oleum Infirmorum.
Sulla parete di fondo, tra le due porte di accesso alla sacrestia e alla canonica, campeggia una grande tavola centinata, un tempo pala dell’Altar Maggiore, raffigurante l’Immacolata Concezione e santi, identificata in passato come La Definizione del Dogma della Concezione. L’opera costituisce un notevole esempio di arte fiorentina tardo cinquecentesca ad oggi semisconosciuta per il territorio, ascrivibile allo sconfinato palinsesto di opere pittoriche di pregio che arredano i luoghi di culto in tutto il Mugello, troppo spesso ignorato e poco valorizzato.
La tavola riproduce una splendida immagine della Madonna in gloria, sorretta dalla falce di luna e avvolta in uno stuolo di cherubini, con due angioletti oranti che le si affiancano dalle nubi laterali. Ai piedi della Vergine le figure di quattro santi, riprodotte secondo l’iconografia classica, con San Bartolomeo all’estrema sinistra che impugna il coltello e San Zanobi, venerato Arcivescovo fiorentino, inginocchiato e con lo sguardo volto all’osservatore. Sul lato destro, ancora in ginocchio, è Francesco d’Assisi, riconoscibile per il saio e le stimmate, e dietro di lui la figura canuta di Sant’Andrea che sostiene la grande croce di legno. Abitualmente collocata nel contesto pittorico fiorentino controriformista e attribuita genericamente alla mano di Santi di Tito, l’opera è stata oggetto di recenti ed accurati studi che finalmente ne hanno stabilito una più idonea e corretta identità. Un prezioso saggio di Alessandro Nesi, maestro d’arte e studioso per la conservazione dei Beni Culturali, ci permette oggi una nuova interpretazione artistica del dipinto, collocandolo tra le opere di Jacopo da Empoli, precisandone infine la corretta datazione prossima al 1587. L’esame di documenti di archivio e la lettura di una Visita Pastorale stilata il 10 ottobre 1591, che riporta minuziosamente i dati iconografici della tavola, hanno permesso allo studioso di stabilire il preciso momento di esecuzione dell’opera. A questi dati si sono aggiunti poi esami critici e accurati confronti di stile, inequivocabilmente attinenti l’operato dell’Empoli e le molteplici committenze ricevute dall’artista per l’arredo di innumerevoli luoghi di culto nel contado.
scheda e foto di Massimo Certini
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 21 novembre 2020