Covigliaio, ombelico del mondo
C’è stato un tempo in cui l’Autostrada del Sole non c’era ma mercanti e pellegrini, eserciti e poeti si muovevano lo stesso. Per raggiungere Roma partendo dal settentrione dovevano transitare per forza dalla Toscana. Toscana uguale Appennini. Appennini uguale Francigena o Passo della Futa (si, anche Giogo, Colla, Muraglione, ma la Futa era la via maestra). La strada che collega Bologna a Firenze è ancora lì, una sarabanda di curve in un labirinto di monti viola al tramonto. Quel che non c’è più è l’hotel La Posta (poi Baglioni, poi Gianna). Trasformato in casa di cura.
Si ergeva, un autentico monumento alla strada, al Covigliaio. Vi ha mangiato, vi ha riposato le membra, vi ha dormito il mondo intero. La lista è lunga davvero. Lunga e strabiliante. Del resto, dall’anno Mille fino a ieri, quella era una delle più trafficate autostrade d’Italia. Orson Welles e Tirone Power vi soggiornarono in una notte di tregenda. Cappelletti in brodo in attesa che i volenterosi liberassero la strada dalla neve. Una cartolina spedita al proprietario confermò la bontà del servizio. Se dal secolo passato scendi all’Ottocento il palcoscenico si spalanca su re, regine, scrittori, viaggiatori del Grand Tour, poveracci senza un nome. Walter Scott e Fenimore Cooper, gli ideatori del romanzo storico, furono sicuramente a Covigliaio. Si rifocillarono, ripartirono. Sono rispettivamente i padri di Ivanhoe e, udite udite, dell’Ultimo di Mohicani, da cui il film con un affascinante Daniel Day-Lewis. Fece sobbalzare anche mia nonna.
Non basta. Vittorio Alfieri: memorabile come trattò il servitore. Carlo Alberto vi dormì, Garibaldi vi si fermò nel 1848, in viaggio verso la repubblica romana, lo zar e la zarina si soffermarono con un convoglio di bagagli e di servi. Distribuirono mance agli indigeni e via, verso la Traversa. Non basta. I papi. Almeno tre. In fuga o di ritorno da missioni all’estero. Pio IX salutò e si fermò a poche miglia da lì, nella villa de Le Maschere, ospite del marchese Gerini. Meglio il lusso, deve aver pensato. Dimenticavo: Napoleone, di sicuro. La via, d’altra parte, si chiamava ‘Via Napoleonica’.
Ma c’è di più, molto di più. Una storia che ti sorprende, ti acceca, il respiro si accorcia. Nella locanda di Covigliaio, ben tre anni prima i fatti di Reggio Emilia, apparve il tricolore. Il biancorossoeverde della bandiera italiana, intendo. Pensa un po’, proprio quello che ancora garrisce allo stadio e al Quirinale. Non un vessillo, una coccarda. Perché a Covigliaio? Vi si rifugiarono due studenti – Zamboni e De Rolandis – in fuga dalle guardie pontificie. Avevano organizzato a Bologna un volantinaggio antipapalino, memori della storia francese immaginavano la rivoluzione. Quando si accorsero che dalla Francia non sopraggiungevano aiuti, cancellarono il blu dalla coccarda e vi dipinsero un bel colore verde. Ed ecco il tricolore. A Covigliaio pensavano di essere al sicuro. Erano fuori dai confini dello Stato pontificio. E invece la mano nera li raggiunse. Rinchiusi nel carcere a Bologna, Zamboni si suicidò, l’amico fu impiccato. Era l’anno 1794. Il Carducci, da par suo, suggerì di narrare la loro storia su una lapide. Peccato siano stati dimenticati.
Vedi, eventi che cambiano la storia sfolgorano spesso dove meno te l’aspetti.
Nella locanda sulla rotta dei maniscalchi hanno cenato anche le dame inglesi del Grand Tour e il marchese De Sade, proprio lui, il principe dei libertini. Una di loro tornò a Londra e raccontò la storia orribile che aleggiava sopra la locanda: nella notte si uccidevano i pellegrini più ricchi per depredarli del denaro. Mah… Il marchese, invece, non apprezzò la cucina. Meglio l’osteria de Le Maschere, lì ti cucinavano un maialino tutto intero. Coda compresa.
Riccardo Nencini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 25 novembre 2018