Il castello che non c’era. Le origini di Vicchio di Mugello tra Immaginazione e Storia
VICCHIO – Intervengo sulle pagine della vostra rivista per alcuni commenti sull’articolo firmato da Fabrizio Scheggi «Vicchio “terra nuova” fiorentina? Macché, c’era già un castello» (qui) pubblicato alla fine dello scorso anno. Le mie osservazioni prendono in parte spunto da un’assidua frequentazione della documentazione dei secoli XII-XV, in larga parte inedita, che utilizzo da molti anni per le mie indagini sulla formazione dello Stato fiorentino e sulle conseguenze che interessarono gli assetti sociali, politici, demografici e insediativi del Contado di cui, com’è noto, faceva parte anche l’intero Mugello. Mi propongo dunque di prendere in esame i due documenti utilizzati da Scheggi per la redazione del suo articolo su Vicchio perché credo che le conclusioni cui è giunto l’Autore siano state totalmente fuorviate da un erroneo approccio critico.
Come i lettori ricordano, l’argomento centrale illustrato dal contributo cui mi riferisco è relativo alla preesistenza di un insediamento identificato dal toponimo Vicchio (Vicclo, Vico, Vicho) testimoniato – secondo l’Autore – ben prima della fondazione trecentesca dell’odierno abitato promossa dal Comune fiorentino contro i conti Guidi, allora detentori dell’egemonia sull’area. In precedenza, sarebbe dunque esistito – per usare le parole di Scheggi – un «primo nucleo urbano dell’antica Vico (Vicchio) sul poggetto sovrastante, un gruppo di case tutte appiccicate che sorgeva in bella vista fin dal XII secolo se non prima».
Queste, riassunte in forma concisa, la tesi e le conclusioni cui è giunto l’Autore. Una larga parte delle argomentazioni addotte a sostegno delle affermazioni di Scheggi ha tratto materia da due pergamene conservate presso l’Archivio di Stato fiorentino, consultabili anche on line: una del 1044, l’altra del gennaio 1218 (per noi, in realtà: 1219 poiché l’anno del calendario fiorentino iniziava il 25 marzo). Entrambi i documenti si riferiscono ad altrettanti toponimi (Vicclo nel 1044 e Vicchio nel 1219) nessuno dei quali è però riferibile all’attuale abitato di Vicchio di Mugello o all’area circostante. Ovviamente, questa perentoria affermazione, che invalida le considerazioni di Scheggi, impone dei chiarimenti che vorrei illustrare iniziando dalla testimonianza risalente a un giorno non specificato del mese di luglio del 1044 quando un atto di vendita elencò, insieme a quello di Vicclo, numerosi altri toponimi, per localizzare una nutrita serie di appezzamenti di terra.
Un confronto tra questi toponimi e quelli documentati nella prima metà del Trecento e all’inizio del secolo successivo (pubblicati nel 2005 e nel 2015 dalla casa editrice Olschki), avrebbe reso possibile riconoscere, con un largo margine di certezza, il Vicclo del 1044 come il toponimo che dette il nome alla parrocchia (popolo) di San Martino a Vico, oggi nel territorio comunale di Fiesole, escludendo così l’identificazione con l’omonimo Vicchio mugellano. Il secondo documento, del gennaio 1219, testimonia l’esistenza di un castello (castrum) di Vicchio che, in quell’anno – come giustamente sottolinea Scheggi – era dominio della Badia fiorentina. Questa testimonianza, di vivo interesse per illuminare i rapporti tra l’ente religioso e i suoi coloni, venne analizzata da Johan Plesner nel 1934 in un vero best seller anche se tradotto in Italiano soltanto nel 1979 (L’emigrazione dalla campagna alla libera città di Firenze nel secolo XIII). Lo storico danese si prese la briga di localizzare con certezza il castello del 1219 denominato Vicchio. Infatti, leggendo il suo libro ma anche la pergamena originale (), non è difficile accorgersi che il documento si riferiva in maniera inequivocabile al castello di Vicchio dell’Abate, appartenente appunto alla Badia benedettina di Firenze (da qui la denominazione dell’Abate…), ubicato in Val di Greve, del quale sopravvivono oggi soltanto alcuni resti nel territorio comunale di San Casciano Valdipesa. Vicchio (dell’Abate) era effettivamente un insediamento fortificato ma distante circa 38 km in linea d’aria dall’odierno e omonimo abitato mugellano e, per riprendere le colorite descrizioni di Scheggi, ai primi del sec. XIII, era proprio la porta di questo castello di cui si occupava il portinarius dipendente della Badia.
L’erronea identificazione con Vicchio di Mugello risulta qui in maniera ancor più chiara rispetto alla testimonianza del 1044 ricordata prima. In conclusione, un approccio critico alle due testimonianze pervenute fino ai nostri giorni e utilizzate da Scheggi le rivela del tutto estranee alla vicenda medievale di Vicchio di Mugello. Inoltre, anche l’ipotesi dell’esistenza di un vicus (da intendere letteralmente come «nucleo abitato di piccole dimensioni») ipotizzabile dal solo toponimo lascia aperti dei dubbi (S. Pieri, Toponomastica della valle dell’Arno, Roma, 1919, p. 362). Se mi è concessa una piccola nota personale, il dettaglio interessante della storia di Vicchio medievale mi sembra però consistere in altre e ben diverse vicende sulle quali ho avuto modo di pubblicare alcuni contributi. Infatti, la documentazione inedita, sia pubblica che privata, della prima metà del Trecento mostra in modo chiaro come la prima fondazione di Vicchio (1292-1309) fosse sfuggita al controllo dei promotori per l’incapacità politica e anche militare del Comune fiorentino nel sostenere l’operazione. In fondo siamo in presenza di una vicenda molto simile alle iniziali sofferenze delle Terre Nuove di Casaglia in Valdilamone (1284) e di Firenzuola (1306).
Per Vicchio si dovettero attendere circa due decenni perché Firenze procedesse a una «nuova fondazione» (1324) anche se l’abitato progettato ai primi del secolo esisteva già e aveva anche conservato il palazzo comunale fiorentino edificato fin dall’inizio. Questa seconda “fondazione” fu però coronata dal successo, sia per un relativo mutamento degli equilibri politici dell’area, sia per l’affermazione della piazza di mercato («forum Vichi») di fondovalle che innescò la crisi del sovrastante mercatale di Pavanico, privando i conti Guidi di una preziosa fonte di introiti con conseguenze sull’intero contesto sociale della loro contea di Ampinana. Interrompo qui le mie considerazioni che ritenevo doverose nei confronti dei lettori, mosso dalla forse ingenua convinzione che una buona informazione giornalistica e di divulgazione scientifica dev’essere sempre sostenuta da una corretta utilizzazione delle testimonianze disponibili, siano esse attuali o risalenti a molti secoli orsono. Per anni ho insegnato Storia medievale all’Università di Bologna ma ho sempre continuato a credere che la Storia non deve restare relegata – o peggio segregata – nei soli ed esclusivi ambiti accademici proprio perché è un patrimonio collettivo, un bene comune. E proprio alla Storia dobbiamo tutti un grande rispetto: fare opera di divulgazione è certo un’operazione meritoria ma da condurre con onestà e prudenza evitando, in primo luogo, di piegare o ancor peggio di stravolgere il Passato in nome di motivazioni campanilistiche, politiche o della più varia natura.
Chi opera in questo ambito deve avere, nei confronti del pubblico e di sé stesso, il dovere della correttezza scientifica e dell’aderenza ai dati oggettivi ottenuti da un approccio critico alle testimonianze. Questo permette di evitare informazioni e ricostruzioni a posteriori falsate e talvolta, pur nella più grande buonafede, totalmente erronee. Un rischio – io credo – da rifuggire per il rispetto di coloro che vivono un territorio e si interessano con curiosità e passione al suo passato, considerandolo come parte integrante della loro identità. Cerchiamo di rispettarli. È un auspicio che, come storico, mi sento di fare in generale e anche per i lettori della vostra Rivista che mi ha offerto lo spazio per queste riflessioni.
Paolo Pirillo
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 5 febbraio 2023