Incontro con Antonio Gasparrini, biostatistico ed epidemiologo
VICCHIO – “About Antonio Gasparrini: Dr Antonio Gasparrini is a biostatistician and epidemiologist with interests in methodology, substantive applications in various research topics, and software development”: si legge così sul sito della “London School of Hygiene and Tropical Desease”, dove il vicchiese Gasparrini lavora da anni come Associate Professor. La London School of Hygiene & Tropical Medicine (www.lshtm.ac.uk) è una università nel centro di Londra che si occupa di ricerca e corsi post-graduate nell’ambito della sanità pubblica, epidemiologia e medicina tropicale, ed è considerata uno dei principali centri internazionali di ricerca e insegnamento in questo settore.
Di recente lo stesso Gasparrini fu protagonista di un’importante ricerca su clima e salute (articolo qui), e in particolare sul rischio di mortalità associato alle temperature, pubblicata dalla prestigiosa rivista medica “Lancet” e poi rilanciata da numerosi giornali, dal Science Daily al The Guardian, dall’Indipendent al Daily Mail.
Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo rivolto alcune domande.
Gasparrini, intanto può spiegare in cosa consiste il suo lavoro?
Il mio lavoro è molto focalizzato sulla ricerca nel campo della epidemiologia (studio della salute e fattori di rischio associate nella popolazione) e della statistica medica. I miei interessi vanno dallo sviluppo di disegni di studio e metodi statistici, allo sviluppo di software, fino al loro utilizzo in studi su dati reali per ricavare evidenze scientifiche su particolari fattori di rischio. Adesso mi occupo prevalentemente di studi di impatto del cambiamento climatico, ed in misura minore di valutazione di interventi di sanità pubblica. Ho pubblicato più di 50 articoli in riviste peer-reviewed internazionali. Circa il 15% del mio tempo, inoltre, è riservato all’insegnamento, soprattutto come organizzatore di moduli in corsi di master.
E quale è stato il percorso formativo, prima di arrivare a Londra?
Dopo la Laurea in Biologia all’Università di Firenze (2003), ho conseguito un Master in Biostatistica all’Alma Mater Studiorum di Bologna (2005), e successivamente una Specializzazione in Statistica Medica e Biometria all’Università Statale di Milano (2009). Dopo la mia partenza per Londra, ho ottenuto un PhD in Medical Statistics alla LSHTM (2011). Prima di andare a Londra ho lavorato per 4 anni al CSPO, il Centro (ora Istituto) Studio e Prevenzione Oncologica di Firenze, come collaboratore coordinato e continuativo, con vari contratti di durata di 3-12 mesi, con il ruolo di ricercatore in epidemiologia ambientale e occupazionale.
Poi la partenza per l’Inghilterra. Quale fu la molla?
La mia partenza per Londra, quasi 10 anni fa, fu motivata da una serie di ragioni, sia di lavoro che personali. Penso che in qualche modo la mia esperienza sia emblematica di molti altri miei colleghi emigranti. Nel 2006-7 il CSPO era precipitato in una crisi finanziaria dovuta a scelte dirigenziali sciagurate, e le conseguenze le stavano pagando soprattutto i lavoratori precari, con incertezze e pause anche lunghe tra contratti, e non i dirigenti e altri impiegati che avevano contribuito alla crisi. Presi l’opportunità per fare qualche colloquio in centri di ricerca a Londra, e dopo aver avuto un paio di offerte, accettai un primo contratto alla LSHTM e me ne andai.
Si può quindi parlare di un classico caso di “cervelli in fuga”…
La situazione di ‘cervelli in fuga’ penso possa essere vista da vari diversi punti di vista. Come prospettiva nazionale, c’è ovviamente il problema di formare professionalità che poi finiscono per contribuire in altri Paesi, senza un’analoga capacità di attrarre ricercatori dall’estero. Senza voler fare generalizzazioni, è ovvio che chi parte sia mediamente più preparato, motivato, curioso e aperto. Come prospettiva professionale, l’opportunità di fare un’esperienza all’estero è un passo importante e, nel mio ambito, dovrebbe essere visto come necessario. Il problema è che in molti casi il livello professionale che si trova in alcune realtà come Londra non ha pari in Italia, per cui è molto difficile pensare di tornare indietro, se non per motivi non lavorativi. Come prospettiva personale, è bene evidenziare che per me, come penso per la stragrande maggioranza di altri emigranti dall’Italia, il fatto di partire è vissuto positivamente come ricerca di qualcosa di nuovo, non come fuga da situazioni lavorative insoddisfacenti. Il sentimento è di eccitazione di fare esperienze nuove, non di amarezza o frustrazione per quello che si lascia.
Progetti per il futuro? E c’è un pizzico di nostalgia per il Mugello?
Non so dire molto dei miei progetti futuri. A Londra sto bene, ho un lavoro da sogno e mi sento in qualche modo ‘a casa’ dopo tutto questo tempo. Il mio lavoro, oltre che soddisfazioni professionali, mi ha dato la possibilità di fare esperienze, di viaggiare e di conoscere. Ovviamente mi mancano molte cose dell’Italia ed in particolare della Toscana, cose e sensazioni che oltre il cibo ed il sole è molto difficile spiegare. Qui nel Mugello e a Firenze ho sempre molti amici, e la mia famiglia continua a vivere a Vicchio. Sono partito per Londra con l’idea di stare per qualche mese, e vivo ancora lì dopo 10 anni. Ho preso la cittadinanza britannica, ma non ho mai veramente pensato di passare tutta la mia vita oltre la Manica, e devo ammettere di non essermi mai veramente integrato. Non nego che ci sia sempre stata l’idea di tornare prima o poi, anche se per ora non ci sono le condizioni, soprattutto lavorative.
NOTA PER I LETTORI: Se anche tu hai fatto o stai facendo esperienze di successo all’estero o fuori dal Mugello e ti va di raccontarti, oppure se conosci persone che lo hanno fatto o lo stanno facendo, scrivici, a [email protected].
(Rubrica Mugello FuoriPorta)
© Il filo, Idee e notizie dal Mugello, 3 gennaio 2017