Quattro firenzuolini “Giusti fra le Nazioni”, salvarono una famiglia di ebrei nel 1943-1944
FIRENZUOLA – Pochi mesi fa lo Yad Vashem di Gerusalemme ha proclamato “Giusti fra le Nazioni” Pietro Angeli (detto Pietrino), Dina Rossetti, Armando Matti e Clementina Angeli per aver aiutato e nascosto negli anni 1943 e 1944, durante la 2a Guerra Mondiale, nel pieno dell’occupazione nazista, una famiglia di ebrei: Sigismondo Smulevich, la moglie Dora Werczler, i figli Alessandro ed Ester e il nipote Leo.
Questo è un importante riconoscimento che viene attribuito dal Centro Mondiale per il ricordo della Shoah, Dipartimento per i “Giusti tra le Nazioni”, a quanti hanno aiutato ebrei a rischio della propria vita.
La cerimonia ufficiale avverrà a Firenzuola il 4 novembre prossimo con la consegna dell’onorificenza ai discendenti delle famiglie di questi nuovi Giusti.
Il primo atto della persecuzione degli ebrei in Italia coincide con la pubblicazione su «Il Giornale d’Italia» il 14 luglio 1938 del Manifesto della razza che affermava, su basi pseudoscientifiche, l’esistenza di “una pura razza italiana” e che “gli ebrei non appartenevano alla razza italiana”. Poche settimane dopo fu ordinato il censimento degli ebrei in Italia: annunciato il 5 agosto, si svolse a partire dal 22 agosto 1938. Le leggi razziali del 1938 e 1939, comprendevano l’espulsione degli alunni e degli insegnanti ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado, dei dipendenti ebrei dalla Pubblica Amministrazione, dall’esercito, dal P.N.F., dal mondo dello spettacolo, nonché il divieto di contrarre matrimoni misti e tante altre norme come il divieto di avere domestici di razza ariana, di comparire sull’elenco telefonico o di avere una radio, l’eliminazione dei nomi degli autori ebrei dai libri, dalle rappresentazioni teatrali e da qualsiasi forma di manifestazione pubblica (l’annullamento dell’identità individuale sarà compiuta dai nazisti nei campi di sterminio, dove il numero tatuato sul braccio sostituì il nome).
Tra questi provvedimenti ci fu la revoca della cittadinanza italiana agli ebrei che l’avevano acquisita dopo il 1° gennaio 1919 e il divieto di lavoro per gli ebrei «divenuti stranieri», entrato in vigore il 12 marzo 1939. Da quel momento queste persone furono considerate apolidi, cioè «senza patria».
Con l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, gli apolidi furono considerati nemici. Sigismondo Smulevich, che aveva ottenuto la cittadinanza italiana negli anni ’30, gestiva a Fiume un atelier di moda. Divenuto un “senza patria”, fu arrestato insieme ad altri ebrei fiumani e al nipote Leone e quindi internato nel campo di internamento di Campagna (Salerno). Leone da Campagna fu internato a Pontassieve mentre Sigismondo a Firenze e infine a Prato come internato libero, dove ha continuato a esercitare abusivamente la professione di sarto.
L’internamento libero fu una misura paragonabile al confino il quale poteva essere comminato agli oppositori politici dalle autorità di pubblica sicurezza su denuncia di un privato o d’ufficio, anche in assenza di un processo regolare e di una condanna per un reato penale. La principale differenza tra le due misure riguardava la durata della sanzione, che per gli internati era a tempo indeterminato, fatto salvo il raggiungimento del limite di 60 anni di età. Talvolta poteva capitare che un confinato, scontati gli anni di confino, fosse internato.
Le località di internamento dovevano essere lontane dai centri di interesse strategico e dalle principali vie di comunicazione. Nella Penisola furono alcune centinaia e ciascuna poteva accogliere un numero variabile di internati: da uno o due a diverse decine. Le restrizioni per gli internati erano molto rigide: potevano muoversi solo all’interno del perimetro comunale; non potevano uscire dalla propria abitazione prima delle sette del mattino e non potevano rientrare a casa dopo le 19 nei mesi invernali, dopo le 20 nei mesi estivi; dovevano presentarsi ogni giorno presso gli uffici comunali; non potevano tenere con sé apparecchi radio, passaporto e documenti personali; non potevano detenere armi; non potevano occuparsi di politica, leggere giornali stranieri e nemmeno ospitare familiari senza l’autorizzazione della Questura. Per qualsiasi esigenza dovevano ottenere il parere favorevole, oltre che del Ministero dell’Interno, di tutte le Istituzioni coinvolte nel provvedimento a loro carico.
Firenzuola, a quell’epoca, corrispondeva alle caratteristiche richieste e divenne luogo di «internamento libero» per cinque ebrei apolidi, tre dei quali provenienti da Fiume e due di origine greca. Per la prima volta la popolazione locale venne in contatto con il mondo ebraico, del tutto ignorato fino ad allora.
Gli Smulevich, fuggiti dalle località di internamento di Prato e di Pontassieve dopo l’occupazione tedesca seguita all’8 settembre 1943, trovarono la salvezza a Firenzuola in via Villani presso i Matti, e nella valle del Rovigo a Ponteroncone, presso gli Angeli. Ci furono altri nascosti tra queste montagne quando le persecuzioni naziste e fasciste misero in pericolo mortale, oltre a tutti gli ebrei, anche chi li aiutava, come la famiglia di Alfredo e Chiarina Brunetti, a L’Alpe, vicino a Casetta di Tiara, che diede rifugio ai coniugi Giuseppe Ventura e Amalia Polacco e al loro figlio Edoardo.
Da tempo era noto che a Firenzuola i coniugi ebrei Schӧnman erano stati protetti e nascosti fino alla Liberazione, avvenuta il 19 settembre del 1944, da Valeriano Batistini e dal farmacista, il Dott. Guglielmo Zini, ma con il ritrovamento del diario di Alessandro Smulevich, fondamentale per il conferimento del titolo di Giusti tra le Nazioni, le ricerche sulla Seconda Guerra Mondiale a Firenzuola hanno potuto mettere in luce aspetti prima sconosciuti come il fenomeno dell’internamento libero in questo Comune oltre alle vicende degli ebrei qui rifugiati e dei loro salvatori.
Grazie al Diario abbiamo incontrato il ricordo di Ancilla Donnini, che, saltando come un capretto per sentieri scoscesi, portava cibo ancora caldo ai giovani nascosti negli anfratti della montagna nei momenti più critici della guerra. E dei tanti che trovavano il modo di segnalare le situazioni pericolose esponendo lenzuola bianche alle finestre, segno di una tacita ma diffusa pratica della solidarietà.
Il coraggio e la generosità di quei “montanari” diventano ancora più significativi se si pensa che tutta la zona della Valle del Rovigo era particolarmente pericolosa per la presenza dei tedeschi impegnati nella lotta contro i partigiani della 36a Brigata Garibaldi Bianconcini.
Il primo dei firenzuolini a essere stato riconosciuto “Giusto” è Don Leto Casini, originario di Cornacchiaia e parroco di Varlungo (Firenze). Don Leto aveva ricevuto dall’arcivescovo Elia Dalla Costa l’incarico di assistere gli ebrei attraverso il reperimento di alloggi, la raccolta di viveri, la consegna di carte d’identità false e lo smistamento ai profughi degli aiuti economici ricevuti dall’organizzazione ebraica DELASEM. Grazie al suo impegno centinaia di persone furono salvate dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti.
In base a quanto finora emerso, possiamo affermare con orgoglio che, tra violenze, eccidi, delazioni, retate e rappresaglie nazi-fasciste, Firenzuola fu “terra di Giusti”, di tanta brava gente che antepose la misericordia e l’umanità alla paura e al rischio personale.
Alla richiesta di conoscere i motivi di tanta generosità nei confronti di perfetti sconosciuti ci hanno risposto che era perfettamente normale per quella gente in quell’epoca prestare aiuto, a differenza di oggi. Chi cercava aiuto e rifugio aveva davvero bisogno di aiuto e rifugio, quindi non si doveva porsi tante domande, ma semplicemente dare aiuto e rifugio.
Rosanna Marcato e Luciano Ardiccioni
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 Ottobre 2021