Alla scoperta degli ospiti dell’Ingorgo Letterario – Andrea Tagliaferri intervista Lucia Renati
BORGO SAN LORENZO – Manca poco tempo all’inizio della quarta edizione dell’Ingorgo Letterario. Tra i vari ospiti di quest’anno sarà presente anche Lucia Renati, giornalista riminese d’adozione che ha pubblicato il suo primo romanzo “La lista delle cose semplici” edito da Sperling & Kupfer. E lo scrittore mugellano Andrea Tagliaferri l’ha intervistata.
Cos’è per te l’ispirazione (se esiste)? Per me l’ispirazione è qualcosa che arriva all’improvviso, che prima non c’era e poi esiste, ma anche il contrario. Può anche arrivare, infatti, dopo un processo lentissimo di presa di coscienza in cui ti rendi conto che c’è qualcosa che deve essere raccontato e che solo tu puoi farlo. Nel mio caso, per “la lista delle cose semplici” ci ho messo 29 anni per capirlo. Nel 1992 a undici anni, ho perso le mie due sorelle in un chiamiamolo “incidente domestico”. Una era la mia gemella, Letizia, l’altra la sorella maggiore, Sara. Solo io mi sono salvata. Crescendo, in tutti questi anni, diversi demoni sono venuti a farmi visita. Ho avuto paura di loro, della mia infanzia, della mia casa natale dalla quale sono scappata appena ho potuto, finché, da adulta, non sono stata costretta ad ascoltarli. Ho maturato piano piano l’idea che la mia storia dovesse essere raccontata, ma non per me (o non solo). Per questo, dico sempre che questo mio primo romanzo non parla “di me”, ma “a me” e a tutte le persone che, come me, si sono ritrovate in un punto della loro vita (nel mezzo del cammin…) a vagare barcollando come ubriachi, sapendo di avere una casa ma non ricordando bene dove fosse. Ogni cosa può essere d’ispirazione, per me lo è principalmente il quotidiano, quello che succede nelle piccole vite ad ognuno di noi, mentre viviamo. Non è necessario che siano tragedie, è sufficiente che siano cose importanti per noi. Spesso mi capita di rubare con gli occhi o con le orecchie atteggiamenti, conversazioni, pensieri, situazioni delle vite degli altri che mi emozionano a tal punto da dovermeli appuntare per non dimenticarmeli. Possono essere due persone sedute al bar, un anziano solo, un bambino, un cagnolino che guarda il suo padrone. Quando succede, scrivo frasi o anche solo delle parole sui post-it che poi metto in un quaderno, li tengo lì, in attesa, finché non arriva il momento giusto. Sarà macabro ma, per esempio, trovo molto ispiranti i cimiteri. Specialmente i cimiteri monumentali delle città, dove ogni tomba, ogni statua, ogni lapide, ogni nome, ogni fotografia, racconta una storia. Lo trovo un luogo di una poesia commovente. Tutto è ispirazione se lo guardi come una possibile storia da raccontare. Bisogna essere anche capaci però di farsi sorprendere, di stupirsi, di vedere cose che nessuno vede, o che tutti vedono ma solo tu sei capace di scorgerne il valore universale, e allora le “traduci” per gli altri che non sanno dirle. Nel mio romanzo c’è un’infanzia soffocata, interrotta, una famiglia che non mantiene le promesse e che perde tutta la sua “sacralità”, la paura d’impazzire di fronte a certi ricordi, la vita che rimbalza e vuole vivere nonostante tutto, nonostante noi. Quanti possono dire di avere vissuto questo nelle loro vite? Moltissimi. La mia storia è di tutti. Credo questo faccia parte o comunque debba fare parte della sensibilità di uno scrittore come di un qualsiasi altro tipo di artista (nella musica, nel cinema, nella scultura o nella pittura). Molti artisti sono universali perché raccontando di uno, parlano a tutti. Potrei fare mille esempi: un film di Chaplin, un dipinto del Caravaggio, una statua di Michelangelo. Prendi Vasco Rossi: quando canta Sally, siamo tutte Sally. Quella canzone sembra scritta apposta per noi ma in realtà parla di milioni di altre persone. I libri, come le canzoni, hanno il grande potere di sconfiggere la più grande paura che sottende a tutte le nostre vite: la paura di essere soli. Perché leggiamo? Per non essere soli, per accorgerci che ci sono altre persone come noi, che siamo uguali a qualcun altro anche nei sentimenti e nei pensieri più disdicevoli, quelli che non diciamo a nessuno e dei quali ci vergogniamo. Per me scrivere è prendersi il permesso di essere pazzi, di disobbedire, di dire le cose a voce alta. I libri devono aprire ferite ancora sanguinanti, spalancare le saracinesche di stanze chiuse da secoli. Scrivere è un morire a lieto fine perché scrivendo ci uccidiamo e poi siamo più vivi di prima.
Hai un metodo di scrittura? Se sì, è cambiato negli anni? Direi proprio che non ce l’ho. Nel senso che non seguo regole o schemi nella scrittura, per esempio, del mio romanzo “la lista delle cose semplici” ho scritto prima la fine e poi ho sviluppato le parti iniziali. Io non posso dire, come sento a volte, che “i personaggi mi hanno guidata nella scrittura e ad un certo punto si sono animati e hanno cominciato ad avere vita propria”, l’ho sempre trovata una grandissima fesseria. Io credo che invece il merito dello scrittore sia proprio nel tenere in mano le redini della sua storia e decidere dove deve andare. Lo scrittore ha il controllo della sua storia, decide come sono i personaggi e cosa devono fare. Se i libri fossero scritti dai personaggi, quale merito avrebbe dunque lo scrittore? Non credo nemmeno nella teoria che vuole che lo scrittore scriva tutti i giorni come se dovesse andare in palestra. Benché io rimanga affascinata da chi dice di scrivere che so, tutti i giorni dalle 10 alle 16, mi chiedo sempre: ma quella roba che ha scritto in un giorno in cui magari non ne aveva affatto voglia, che fine fa? Gli piace? La tiene o tutto il lavoro che ha fatto poi decide di cancellarlo? E allora, a cosa è servito? Detto questo, non ho un metodo ma cerco di essere fedele al mio stile. È uno stile semplice, non sono elitaria e non mi avventuro in citazioni troppo alte che non sono in grado di capire. Sono una giornalista televisiva e racconto storie da vent’anni per immagini: i miei lettori dicono che il mio romanzo si legge in un giorno perché è come guardare un film, non puoi fermarti perché lo vedi, ogni scena accade veramente mentre la stai leggendo. Voglio che il lettore venga con me e viva con me le cose che racconto.
Dove scrivi? Principalmente a casa, dove mi sento al sicuro e dove posso essere me stessa e non mentire.
Hai dei rituali di preparazione alla sessione di scrittura? No. Se mi metto a scrivere è perché ho l’urgenza di farlo quindi non perdo tempo, visto che so che potrei non scrivere per diverso tempo. Per scrivere “la lista delle cose semplici” ci ho messo più o meno tre anni e ho interrotto la scrittura anche per molti mesi. Ma quando sento “il flusso” posso anche svegliarmi nel cuore della notte per mettermi a scrivere.
Ti imponi un numero di battute o raccogli quello che viene? Assolutamente quello che viene.
Qual è l’autorə che più ti ha influenzato? Premetto che di solito i libri scritti da quelli bravi, osannati dalla critica e che vincono premi a destra e a manca, non li capisco. Quasi sempre rimango delusa dai libri che scelgo perché sono “il caso editoriale dell’anno” insomma, diffido dalle fascette, soprattutto da quando il mercato editoriale propone molti prodotti che sono pure operazioni di marketing. Qual era la domanda? Ah, sì: mi piacciono moltissimo Diego de Silva, Lansdale, Stephen King, Teresa Ciabatti, Donatella di Pietrantonio, Nicola Lagioia, per dirne alcuni.
Che libro stai leggendo? Sto leggendo “una vita come tante” di Hanya Yanagihara” e un classicone che credo mi servirà per il secondo libro che è in fase di scrittura: “Moby Dick” di Herman Melville, traduzione di Cesare Pavese. Lo sto adorando. Herman Melville, traduzione di Cesare Pavese. Lo sto adorando.
Andrea Tagliaferri
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 5 novembre 2021