Don Stefano Casini: il poeta solitario della montagna
MUGELLO – Un altro di quei poeti della montagna fiorentina, che mi stanno particolarmente a cuore, è don Stefano Casini, che fu pievano a Cornacchiaia poi a Fagna fino alla sua morte. Nasce nel 1853 nella frazione firenzuolina e ne reggerà la pieve dal 1885 al 1909. E’ conosciuto soprattutto come storico del suo territorio; ha scritto il celebre “ Dizionario “ pubblicato nel 1914, opera importantissima per la storia e la cultura di Firenzuola; non meno importanti, anche se poco conosciuti, sono: “La badia di san Pietro a Moscheta“ del 1894 e “Memorie del seminario di Firenzuola“ del 1895.
L’aspetto, comunque, di questo personaggio, che più mi interessa è quello di poeta. Nel suo “Dizionario “ ha inserito ampie parti sulla poesia popolare del territorio, ha pubblicato sue poesie, ed ha avuto soprattutto il pregio di trasmetterci le poesie di Giovanni Giuliani di Rapezzo, facendoci conoscere parte della sua poetica e salvandolo dall’oblio, dovuto dalla distruzione dei suoi manoscritti, in seguito al bombardamento del seminario ( distrutto insieme a tutto il paese ) del 1944, luogo nel quale erano conservati per volere delle figlie del poeta. Il nostro pievano scrisse solo una raccolta di poesie: “ I miei riposi – Rime del dottor Cannesio Fasti di Cornacchiaia pubblicate da mons. Stefano Casini “. Il libro fu pubblicato nel 1929, quando ormai da molti anni si trovava alla pieve di Fagna, ma tutti i componimenti, salvo qualcuno, sono legati alla sua permanenza e al ricordo di Cornacchiaia. Don Stefano, nell’introduzione della raccolta, ci racconta di aver ritrovato, casualmente nella casa di famiglia dei Poggini Rossi, un vecchio quaderno ingiallito intitolato: “ Il quaderno di rime del dottor Cannesio Fasti di Cornacchiaia “, all’interno del quale “ sono canti di feste, canti di ricorrenze, di usanze del nostro popolo, slanci di amore verso la sua pieve piena di ricordi sacri, verso la sua bella montagna da’ suoi svariati e magnifici aspetti, ora verdeggianti di selve, ora biancheggianti di neve “.
Con questo quaderno in mano, pensa che data la massa di poesie che ogni giorno ingombrano il mercato librario, nessun editore si sognerebbe di “ mandare a Borgo a Buggiano il dottore di Cornacchiaia e le sue rime, delle quali ( in quel luogo ) non sentivano per nulla il bisogno “; pensa però che provenendo dal cuore, queste rime, contengano anche un po’ di bello e che forse potrebbero tornare utili ai giovani di Firenzuola per riscoprire i valori e le usanze del buon tempo andato. Quindi immaginando, il nostro buon pievano, che una volta morto lui, queste poesie andrebbero probabilmente perdute, e pensando che “ possano queste letture concorrere ….. a mantener in piede questo patrimonio dei nostri vecchi, che siamo minacciati di perdere, e a tener nei cuori nostri acceso l’amore del nostro paese,” toglie “questo quaderno dall’indegno fine di esser bruciato sotto un paiuolo e lo licenzia alle stampe.” Per chi non l’avesse ancora capito, l’autore del quaderno di poesie è lo stesso Stefano Casini, che ha anagrammato il suo nome in Cannesio Fasti. Cannesio Fasti è l’alter ego di Stefano Casini, anzi direi che è la sua figura metafisica ; il nostro pievano descrive, infatti, il dottore poeta con quei tratti e con quelle sfumature che sono poi quelli tipici del suo carattere e del suo modo di essere: “ era stato un’anima solitaria, seppellito quasi sempre fra i suoi libri, innamorato della sua libreria non ha mai … cercato distrazioni, chiassi o ritrovi …. dai signori e molto più dalle signore, se ne rimaneva per quanto poteva lontano, perché non ne aveva stima che di gran perditempi …” e poi ancora: “ appassionato amatore delle usanze e delle cose passate, del semplice e buon vivere della sua montagna, geloso poi delle tradizioni, delle leggende e delle storie del suo popolo, delle usanze religiose, dei canti e delle feste sempre usate nella sua pieve …”. Don Stefano aveva una visione della sua Cornacchiaia paternalistica e idilliaca, la descrive come una specie di Arcadia.
Nonostante la sua miseria: “ Chiuso in quel suo profondo vallone cupo di castagni, con intorno quella corona di poggi a ridosso, quel suo borgo nero e scalcinato pressappoco come lo dovettero aver lasciato gli Etruschi…”, vedeva l’isolamento come un modo per preservare la sua comunità dai mali del mondo, vedeva la sua pieve come un mondo a se stante, dove la gioventù invecchiava contentandosi delle sue conversazioni sul sagrato della chiesa oppure delle veglie nelle case, nelle quali si trovava sempre qualcuno che raccontava delle storie; un mondo in cui la vita era difficile, ma dove si rimaneva attaccati alla chiesa e alle tradizioni. La morte del dottor Cannesio, è quindi in definitiva, la morte del poeta Stefano Casini, che muore per il distacco da quel mondo isolato, ma intimamente suo, per il dover lasciare le sue tradizioni e la sua gente; muore quando deve abbandonare i luoghi natii per andare alla pieve di Fagna, nella quale svolgerà il suo ministero in maniera impeccabile, anche se sentirà sempre la nostalgia di Cornacchiaia e fino all’ultimo spererà di farvi ritorno.
Io nacqui a Cornacchiaia e vi passai
Molti begli anni e una vita quieta.
L’erta del Pindo di salir tentai,
Scrissi di storie nostre e all’ardua meta
Lavorai con ardor, ma anch’io provai
Che in patria sua nessuno è profeta.
Or sono qui solo, cerco far del bene,
Del bene a tutti, e quel che viene viene.
Il libro è una raccolta eterogenea di poesie; ne ho selezionate alcune. Il libro è ormai introvabile anche sul mercato antiquario; alcune sono pubblicate anche sul “ Dizionario “ di Firenzuola, che si può reperire in tutte le biblioteche del Mugello.
FIORI TARDIVI
Quando pei campi spogli e le tagliate
Vi vedo tremolar, fiori tardivi,
Colle tenui fogliucce illuminate
Dai sol d’ottobre scarsi e fuggitivi,
Quando vi vedo fra le paglie alzate
Sopra di voi dal vento dei declivi,
Che senza odor, senza color vi state
Fra l’erbe gialle, o morti o appena vivi,
Io vi contemplo mestamente e vanno
Lontan lontano i miei pensier sognando
Di quel sol, di quel cielo e di quel verde
Ormai passato e in un segreto affanno
Rimpiango anch’io quel dì che sto passando,
E in un lungo pensar l’alma si perde.
IL CASTELLO DI MONTEGEMOLI
Si ergeva un dì sul monte arduo maniero
Terror de’ fiorentini e de’ vassalli
E tra’ suoi merli come di cristalli
Balenavano l’armi al balestriero.
Feriva di pedoni e di cavalli
Le sue pendici strepito guerriero,
Mentre ghignando Maghinardo fero
Gettava l’ombra sua giù per le valli.
Or non vi stride più la fragorosa
Saracinesca e quell’ardor si è spento
Sulla vetta deserta e rovinosa.
Fra le ginestre pascola l’armento
E non riman che l’erta silenziosa,
Fra poche querce che flagella il vento.
IL RITORNO DELLA NEVE
Appoggiato al mio verone
Con passione
Guardo estatico lontano,
Fra la neve
Lieve lieve,
Che discende sopra il piano.
Lenta lenta, come stanca,
Bianca bianca,
Vien giù a falde silenziosa
Sopra il verde
Che si perde
Fra quel tenue vel di sposa.
Sembra un piovere di foglie
Che discioglie
Qualche immenso albero in cielo,
Pioggia ondosa,
Vaporosa,
Bianca bianca, su quel velo.
Di festoni, di ricami,
Copre i rami,
Copre i frutici del suolo,
E fra questi
Mesti mesti
Stan gli uccelli senza volo.
L’ora imbruna ed ella scende,
Si distende
Sopra i campi, su per l’aria,
Filo d’erba
Più non serba
La campagna solitaria.
Che silenzio! Ai casolari
Solitari
Più non s’ode la massaia,
Che alle diete
Consuete
Chiami i polli in fonda all’aia.
Mi incatena al mio verone
La visione
Del tuo lucido biancore,
Ma non t’amo,
Non ti bramo,
Bianca fata senza amore!
AI MIEI NIPOTI
Quando sarete vecchi e più nessuno
Fra voi memoria serberà di me,
Io che dei vecchi nostri ad uno ad uno
So i nomi ed ho tutto in mente Cadifrè,
Ho in mente il poggio ove salivo ai tordi
Nei dì d’ottobre, ho in mente il focolar
Ove udivo le storie e i ricordi
Che sento ancor nell’anima pulsar,
Quando, dico, di me più non avrete
Alcun ricordo, più nessun pensier,
Nessun pensier di questo vecchio prete
Passato come gli altri al cimiter,
Io che non ebbi nè rima nè verso
Se non d’amor pel luogo mio natal,
Pel mio cielo, il mio ciel lucido e terso,
De’ monti miei la gioventù immortal,
Io sarò sempre in mezzo a voi e soletto
Con altri forse che il tempo obliò,
Fra quelle mura del paterno tetto
Non conosciuto spirito vivrò.
Come corron le vite a rinnovarsi
Di forme nelle vite di quaggiù,
Saranno allor nella natura sparsi
Quest’atomi; ma mentre per virtù
Eterna in preda all’acque, all’aura, al vento
Questa cenere mia si perderà,
Io rimarrò fra voi. Se un qualche accento
Di me qualcun di voi sentir vorrà,
Cerchi il silenzio del mio poggio brullo,
Lavori i campi de’ miei genitor,
Preghi quei Santi ch’io pregai fanciullo,
Legga i miei libri dove ho chiuso il cuor.
AD UNA ZANZARA DELLA MIA CAMERA
Colle quattro zampe al muro,
Colla sua testa abbassata,
Mogia mogia, addormentata
Sta nell’angolo più scuro
Del suo reo destino ignara
Quella perfida zanzara,
Che del sangue mi vuotò.
Ella certo sogna ancora
Di squillare allegramente
Negli orecchi della gente
Quella sua tromba sonora,
E di far sulla mia pelle
Delle cene ancor più belle
Della notte che passò.
Uh, la perfida ! Arrabbiato
Coll’ingordo animalaccio
Do di mano a un canovaccio
E giù un colpo disperato ! …
Oimè, stolto ! In quel momento
La si desta, prende vento,
E sonando se ne va.
Così l’ira spesso incita
A’ suoi piccoli furori
Nostri sdegni e fa peggiori
I cimenti della vita.
Or per fin quel vile insetto
Del furor che m’arse il petto
Fra i compagni riderà !
ALLA MIA LUCERNA
Spesso mi hai unto, o lucernetta ria,
Quaderni e libri. Uh! Quelli imbratti neri
D’ oliosui libri a tradimento! Eh via,
Ci son corsi tra noi dei dispareri!
Ma per tanti anni per inverni interi
Ci siam fatti sì buona compagnia,
Che io ti perdono tutti i dispiaceri
E ti vo’ bene, o lucernetta mia.
Quante mie cose sai, quante al tuo lume
Mie fatiche! Ma ormai siam fatti vecchi
E, lucernetta mia, dobbiam finire
Te, nel mondo così corre il costume,
La moda caccerà tra’ ferrivecchi
Me incalzan gli anni e mi faran morire!
IL MIO CAMPANILE
Vi ho visto in un velo
Di marmi lucenti
Lanciati nel cielo,
Cullati dai venti,
Fantastiche moli
Fra l’onda dei soli;
Vi ho visto perduti
Fra’ campi dei grani
Coi fornici acuti
Sui colli lontani,
Quali ardue passare
Antenne del mare;
Vi ho visto sfidanti
Sui fianchi quadrati,
Eterni giganti
Dei secoli andati,
Coll’ardue teste
Le nere tempeste;
E intorno siccome
Di geni divini,
Ho udito il gran nome
Sul labbro ai vicini
Qua e là per lo stadio
Di Giotto, o Palladio
Ma, oh! Come più ardente
L’affetto a te corre
Solinga mia torre
Che ombreggi il pendio
Del borgo natio !
Da artefici oscuri
in tempo obliato,
Te a sghembo sui duri
Filoni piantato,
Niun loda di stile
O mio Campanile
Di te nulla sanno
Dei vecchi le carte,
Ansioso il Britanno
Non specola l’arte
Dei dotti compassi
Sui bruni tuoi sassi
Ma o tacite aurore
Del mio campanile
O quiete dimore
Fra il velo sottile
De’ rosei vapori
Dell’alba e dei fiori
O garruli uccelli
Ch’io tutti conosco,
O branchi d’agnelli
Che scendon dal bosco
Belando ai campani
Che suonan lontani
O stuol di colombi
Che levasi attorno
A’ noti rimbombi
Del tuo mezzogiorno
Fra un popol che ancora
Sta in pace e lavora ,
Voi dolci ricordi
Più che altra memoria,
Ci dite concordi,
Al cuor della storia.
Oh! Storia gentile
Del mio Campanile!
SOGNI DI ANIME
O nuvoletta solitaria e candida
Lassù perduta negli spazi immensi,
Ove fuggi? … Che pensi? …
Forse in cerca di un ben che ti innamora
Speri in quel mar di luce
Qualche sognata tua felicità? ….
Anch’io talor così veleggio e fulgidi
Mari di sole vo sognando, ignaro
Di me, del tempo che intanto sen va.
Così in sognar quest’anima si stanca
In mesto abbattimento …
O nuvoletta solitaria e bianca,
A noi fa male il vento!
I NOSTRI POVERI
“Signor, deh! Fate piovere
Sopra il mio campo! … Da quel fosso in là
Il mio vicino … ah! Il reprobo! …
Mi sbarba ogni anno i termini,
E mi ruba, mi ruba la metà!
Gli bruci il gran la ruggine,
Gli nasca l’orzo con le barbe in su! ….”
Ma via, silenzio, o poveri:
Così si forma, miseri,
Così si forma il regno di Gesù?
Fra coloro che piangono,
Fra chi suda paziente sul lavor,
Fra coloro che si amano,
A biancheggiar cogli Angioli
Le belle schiere sue sceglie il Signor
Signor, deh! Fate piovere
Su tutti i campi: i pietosi sospir,
Non le piccole invidie
Raccogliete dei poveri,
Dei poveri che tanto han da patir.
Sergio Moncelli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello –1 marzo 2019