I “nidi di Lucine” del nostro Appennino
MUGELLO – Nell’estate del 1962 andai per la prima volta a Castagno d’Andrea, con la Parrocchia di S. Marco di Faenza, la mia città natale. Per esplorare questo territorio, nuovo per me, mi diressi verso la Fonte del Borbotto. Seguii un sentiero che saliva per un pendio coperto da prati alternati a felciai e cespuglieti, con qua e là resti di muretti a secco, testimoni di antiche pratiche agricole. Attraversavo ogni tanto una strada in costruzione: volli seguirla e giunsi ai piedi di una pietraia che formava un pendio poco cespugliato, perpendicolare al tracciato stradale. Verso la cima si ergevano alcuni spuntoni rocciosi, alti alcuni metri. Dove finiva la strada ricominciava il sentiero, che passava accanto a un grosso albero assai diverso dalle piante vicine e con foglie aghiformi, simili a quelle delle conifere. Era un tasso (Taxus baccata L.), chiamato anche albero della morte per la tossicità delle sue foglie (cresce molto lentamente e può vivere anche oltre duemila anni).
Ma particolarità del luogo che mi attrasse di più furono gli spuntoni perché scoprii che erano di calcare, cioè di carbonato di calcio (come quasi tutti i marmi, per capirsi). A differenza delle rocce circostanti, fatte di arenaria e galestro stratificati, queste erano compatte non stratificate, con tanti piccoli buchi presenti nella massa. Ma la sorpresa più grande fu constatare che alla base c’erano fossili rotondeggianti costituiti da conchiglie di bivalvi grossi quasi una decina di centimetri. Anche uno studente del secondo anno di geologia, com’ero io a quel tempo, sapeva che nella formazione geologica di quella zona (la Marnoso-arenacea umbro-romagnola) non vi poteva essere traccia di fossili, dato che si trattava di rocce formatesi per frane successive (ecco gli strati!) cadute sott’acqua dalla scarpata continentale e deposte sul fondo dell’oceano a oltre duemila metri di profondità. È una formazione di uno spessore calcolato in circa tremila metri, risalente a 15 milioni d’anni fa, che compone il crinale principale dell’Appennino dal Giogo di Scarperia fino all’Umbria e di cui fa parte la pietra serena estratta nelle cave di Firenzuola.
Tornato all’Università appresi di essermi imbattuto in un “nido di Lucine” (così chiamato per la conchiglia fossile più comune, la Lucina dicomani), una struttura conosciuta sin dalla metà dell’Ottocento che si trova spesso dove la roccia della Marnoso-arenacea si è formata dal compattarsi di fanghi e altri materiali fini. Nessuno sapeva chiarire perché proprio lì fossero questi nidi, del tutto distinti dai materiali circostanti. L’unica spiegazione era che si trattasse di materiali franati, ma nessuno sapeva indicare da dove provenissero.
Questi interrogativi sono rimasti senza risposta per quarant’anni e si sono riproposti ogni volta che ho trovato un nido in Appennino: una volta ne ho trovato uno nei pressi delle Rezzaiole, sempre a Castagno, non più grande di un paio di metri cubi.
I fossili hanno colpito la fantasia popolare, tanto che spesso certi luoghi sono contrassegnati come quelli “dove si trovano le conchiglie”. Così mi fu segnalato un luogo su un sentiero del Mocasale, nei pressi di Casale (frazione di San Godenzo), mentre altre indicazioni riguardavano la zona delle Balze, tra Vicchio e Dicomano, oppure quella di Piandolci, una cascina in rovina situata poco sotto il crinale. Molte scoperte le ho fatte da me sul Monte Citerna o intorno a Case Filetta, nel territorio di Vicchio. In quest’ultima zona ci sono molti nidi, non certo grandi come quello di Castagno ma con molti fossili. Qui si trovano anche le postazioni tedesche più avanzate della “linea gotica” e non è un caso: come ha notato Filippo Bellandi “Filetta” deriva dal greco e significa “posto di guardia”, “posto di confine” e infatti era il confine tra i Bizantini di Ravenna e i Longobardi, che avevano i loro avamposti alla Badia a Bovino (il nome richiama “campo Alboino”). Il posto di confine non era sul fiume, ma a mezza costa, perché eventuali assalitori non avessero il vantaggio della sorpresa e giungessero all’attacco stanchi per la salita. E i tedeschi si erano uniformati agli stessi criteri.
Torniamo ai nidi. Uno l’avevo individuato alla Colla di Casaglia, in mezzo a un prato in cui un masso sporgeva dal terreno per un paio di metri; apparteneva allo stesso intervallo fangoso della Formazione Marnoso-arenacea che da Castagno arriva anche oltre la Colla di Casaglia. Un altro l’avevo trovato nei pressi di Osteto (Firenzuola), attribuibile quasi certamente ad un diverso intervallo “fangoso” della stessa Formazione geologica. Continuavo però a chiedermi quale fosse la genesi di questi nidi.
Un vecchio amico che insegnava all’Università di Modena mi spedì un articolo di Stefano Conti, un collega geologo che applicava alla nostra frazione d’Appennino i risultati di ricerche iniziate negli anni ’90. Lo studio riguardava i fluidi freddi a metano-solfuri presenti sui fondi marini, ove si depositano anche oggi, con analoghe modalità, materiali simili a quelli della Marnoso-arenacea. Nel testo si parla di “risalita di fluidi freddi ricchi in metano”, che batteri chemiosintetici (che cioè si autoproducono il nutrimento usando composti chimici come il metano o i solfuri) sfruttano, generando così fiorenti comunità, con contemporanea formazione di carbonato di calcio che precipita e dà luogo al cosiddetto nido. In altre parole: dove i fondi degli oceani erano abbastanza fangosi, i gas che risalivano dalle profondità (in genere metano e solfuri) venivano intrappolati, finché la loro pressione non sfondava la copertura, originando una sorgente gassosa. Intorno al punto di fuoruscita, per precipitazione chimica, si depositavano i calcari mentre si moltiplicavano i batteri che sfruttavano questi gas per nutrirsi e ricavare energia.
Come abbiamo già detto altre volte, dove c’è cibo c’è chi lo mangia. Le conchiglie fossili non sono che i resti dei molluschi che mangiavano i batteri, filtrando le acque e il fango. E non è detto che la cosa finisse qui: in molte parti del mondo si sono rinvenute situazioni simili con esseri perfettamente viventi e funzionanti. Oltre le conchiglie, spesso molto più grosse delle Lucine, sono presenti vermi lunghi anche qualche metro e granchi, che evidentemente mangiano i resti di conchiglie e i vermi. Si tratta di veri e propri ecosistemi che funzionano perfettamente senza il bisogno della luce del sole, mostrandoci com’era la vita ai primordi sul nostro pianeta. E i nidi di lucine diventano così “chemioerme”, cioè scogliere (le coralline, “bioerme”) basate su organismi chemiosintetici e non legati alla luce, come invece sono i coralli.
Dai nidi di Lucine ai primordi della vita: non c’è che dire, un bel salto!
Paolo Bassani
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 18 luglio 2021