MARRADI – Nel cielo terso di una mattina primaverile la Vergine Maria spalanca il suo vasto mantello. Grande, bella, salda, regale. Le pieghe del suo manto sono i costoni rocciosi di un antro caldo e accogliente. Piccoli, deboli, con le ginocchia a terra, nella profonda cavità di quello spazio i fedeli riparano dai mali del mondo. Versione cristiana della Grande Madre, mito antichissimo dei popoli indoeuropei, Mater Matuta degli Etruschi, la stessa potente divinità che avvicina la terra al cielo, congiunge le forze primordiali sotterranee al respiro vitale dell’aria: è quella che il Cristianesimo recupera e potenzia nel ruolo salvifico di Madre del Salvatore degli uomini. Maria, l’immortale Vergine predestinata dal Supremo Signore, generatrice di vita, trionfatrice sulle forze del Male, rifugio e speranza nella tenebrosa esperienza del male che il Cristianesimo ha chiamato “Peccato”.

Refugium peccatorum, consolatrix afflictorum… parole di invocazione ancora presenti nelle preghiere di supplica.
Sul finire del Quattrocento, o forse ai primi del Cinquecento, il Maestro di Marradi l’ha raffigurata (1) e consegnata ai giorni futuri in una delle sue opere più alte realizzate per l’abbazia vallombrosana di Santa Reparata in Marradi. L’ha fatto usando un’iconografia assai fortunata e popolare nel Medioevo, che neppure in pieno Rinascimento ha esaurito la sua carica simbolica, nonostante le rivoluzionarie novità linguistiche fatte emergere dagli artisti fiorentini.
Volgiamo il pensiero ai quei magici anni sul finire del Quattrocento, quando il Maestro lavora come pittore e artigiano a Firenze, ma anche nel contado e per la nostra abbazia tra i monti, in luoghi dove più a lungo perdurano le tradizioni, dove le immagini sacre sono chiamate a incrociare lo sguardo di gente semplice, che si accosta ai sentimenti della fede senza alcuna sapienza dottrinale, con l’animo oppresso dalla sofferenza, dal bisogno, dall’oscuro senso di colpa che inquieta e spegne lo slancio dell’esistenza. Ma in questa nostra badia regge la briglia un grande: Taddeo Adimari, un abate colto e moderno, di illustre famiglia fiorentina, amico d’infanzia di Lorenzo il Magnifico, (2) teologo e scrittore, compagno di esperienze dottrinali e istitutive dell’abate generale di Vallombrosa, Biagio Milanesi.

1497, Firenze, Uffizi
Per l’abate Taddeo la Badia di Santa Reparata non è affatto una sine cura ottenuta con incarico commendatario, è “sangue suo e suo sudore”, è amore e passione, impegno quotidiano di trent’anni e oltre di vita e di servizio attivo, di attaccamento durevole. Proprio lui si fa committente del Maestro di Marradi. Ordina per la sua chiesa una grande pala destinata all’altar maggiore, nella quale si celebrano la Santa titolare, Reparata, accanto alla Vergine in Maestà, e insieme il fonda-tore del monachesimo occidentale, Benedetto, e i due grandi della storia vallombrosana, Giovanni Gualberto e Bernardo degli Uberti. A questa pala dovrà fare da complemento l’elegante paliotto, un arredo dipinto che figura una ricchissima stoffa adorna di pietre preziose, dove si apre un disco contornato da una corona di alloro, recante l’immagine della giovane Reparata col suo bianco vessillo crociato. La Pala di Santa Reparata è l’unica opera del misterioso Maestro di Marradi della quale è stato possibile determinare la data di esecuzione: 1498.

Ma se la Pala ha il carattere solenne, il tono alto dell’immagine di rappresentanza dell’abbazia vallombrosana, la Madonna della Misericordia, dipinta probabilmente qualche anno più tardi, ha un suo peculiare timbro di maggiore intimità, di vicinanza al luogo, al tempo, e agli uomini di quel tempo, che la rendono particolarmente seducente.


Quelle persone inginocchiate, laici e monaci insieme, tutte – tranne due eccezioni – con lo sguardo rivolto alla grande Madre, compunte nella loro devozione, le mani giunte nella muta preghiera, uomini e donne, giovani e anziani non ci appaiono come generiche astrazioni: i loro volti sono piccoli ritratti, che ci piace indagare con l’intimo desiderio di poterli in qualche modo identificare.

Sotto l’umile saio vallombrosano, ecco l’abate Taddeo della ba- dia marradese, vicinissimo alla veste fiammeggiante della Vergine. Al suo fianco l’abate generale Biagio Milanesi, suprema autorità della Congregazione (3). Ancora a sinistra, l’uomo con barbetta e baffetti, berretta e calzari neri, sopravveste scura. A giudizio di chi scrive è probabilmente il pittore, quel misterioso “Maestro di Marradi” al quale finora non è stato possibile dare un nome.
Nessun documento storico, nessuna firma, nessun atto di commissione o di pagamento, nessuna citazione in scritti contemporanei ne consentono l’identificazione. “Maestro di Marradi” lo chiamò Federico Zeri in un suo artico-lo del 1963, definendolo una notevole persona uscita dalla cerchia di Domenico Ghirlandaio (4). Ho sempre pensato che se c’è un quadro tra quelli eseguiti per la badia marradese dove il Maestro potrebbe aver rappresentato sé stesso, è verosimilmente questo, figurandosi vicino ai suoi committenti, fedele tra i fedeli, quel popolo del piccolo centro appenninico che fin dal secolo XI aveva avuto nell’Abbazia di Santa Reparata uno dei cardini, fors’anche il più rilevante della sua fondazione culturale, del suo viaggio dentro la Storia.

E così il borghese nel gruppo a destra, sobriamente vestito di nero ma con la borsa pendente al fianco, segno della sua posizione sociale e della sua diretta partecipazione economica all’impresa artistica del Maestro, la bella donna bionda coi lunghi capelli sparsi sull’abito rosso, i giovani e i meno giovani, il contadino col volto abbronzato e la chioma un po’ arruffata: sono i marradesi di allora, i contemporanei del Maestro, che in un giorno di primavera, alla fine del quindicesimo secolo, si sono disposti in un gruppo ordinato ai piedi della loro Madonna, come per una moderna foto d’occasione.
Spostiamoci adesso con lo sguardo sul paesaggio nel quale la scena è ambientata, quello che dieci anni fa, all’epoca in cui io e gli amici di Marradi ci mettemmo d’impegno a studiare l’opera, mi era apparso come “un paesaggio ideale, imparentato… con la campagna umbra, resa popolare da Pietro Perugino attraverso la sua pittura e attraverso gli insegnamenti della bottega che aveva aperto a Firenze negli anni novanta.” (5)
Ma, dopo il restauro eseguito magistralmente da Rossana Bonetti nel 2013, gli elementi di quella scena sono stati resi più chiari, vivificati nei colori e nei minuti dettagli, in modo tale da potere essere riletti con maggiore accuratezza. E proprio per questo si è come avvertita la necessità di andare più a fondo. Era come se i ciottoli e le graziose piantine in primo piano, i colli, le rocce, gli alberi, che si stagliano sullo sfondo del cielo luminoso chiedessero di essere guardati meglio, non solo gustati nella loro grazia delicata ed agile, ma affidati all’esperienza di un occhio esperto più oggettivo, capace di coglierne tutte le rispondenze al vero.
Ho trovato la persona giusta nell’amico Franco Scalini, appassionato esploratore del paesaggio marradese, curatore del Centro Naturalistico Botanico Olimpia Massari, il quale ha condiviso la mia idea e accettato di sottoporre la Madonna della Misericordia al suo esame specifico per formulare un parere.
Queste le principali osservazioni contenute nella sua “Nota sulla flora raffigurata nell’opera Madonna della Misericordia del Maestro di Marradi. (6)
Il paesaggio di sfondo: I rilievi montani raffigurati risulta-no con una flora arborea che, in particolare dalla forma delle chiome, a mio parere è quella tipica del territorio marradese, flora costituita si può dire quasi esclusivamente da latifoglie in prevalenza delle seguenti specie: roverella, rovere, cerro, carpino nero, castagno, orniello, aceri, olmi e, al, di sopra degli 800 metri di altitudine, faggio. Oggi sono pure presenti nel territorio marradese molti boschi di conifere; ce ne sono anche sul monte di fronte alla Badia del Borgo, con pino nero, cipresso, abete bianco, peccio, etc., ma si tratta di impianti relativamente recenti, che all’epoca del Maestro di Marradi non esistevano.
Il primo piano: “Alla base del quadro ci sono 19 piccole piante erbacee e qualche ciuffo d’erba in fondo a destra, il tutto all’interno di un’area in parte recintata da uno steccato.
All’interno di quest’area è collocata pure l’immagine della Madonna che avvolge con il proprio manto protettivo una pluralità di persone.
Appare subito evidente che l’ambientazione è quella dell’hortus conclusus dei monasteri ed è legittimo supporre che le piante dipinte siano tutte piante prevalentemente medicinali che vi venivano coltivate…
Riguardo a tale ambientazione, occorre tenere presente che nella cultura cristiana dell’epoca vigeva una ricca simbologia di vegetali con significato religioso secondo la quale l’hortus conclusus è simbolo di Maria Vergine, poiché esso con le sue piante rappresenta la straordinaria bellezza della natura, bellezza che evoca l’immagine del paradiso, perduto ma ripristinato grazie alla Madonna che ha reso possibile l’incarnazione di Cristo.
L’hortus conclusus nel dipinto ha recinzione mediante steccato ma soltanto parziale. Ciò a mio parere accresce il significato della raffigurazione dell’hortus stesso che non va pertanto inteso completamente isolato, ma in comunicazione con l’esterno, con il mondo, verso cui di fatto si diffonde la sua influenza benefica comprensiva anche di tutto ciò che esso simboleggia.
………………….
Passando ad esaminare le 19 piante alla base del quadro, … ritengo opportuno per precisi riferimenti numerarle progressivamente con percorso da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Ora, … quella accuratezza delle composizioni che risulta subito evidente fa pensare che l’autore abbia inteso dipingere proprio piante realmente esistenti, con molta probabilità piante dell’hortus conclusus del monastero dove operava…. L’identificazione certa delle specie risulta impossibile mancando sufficiente fedeltà di raffigurazione… Si può tentare di individuare le piante dipinte sulla base del loro grado di somiglianza alle piante reali… Si tratta di tutte piante medicinali in uso all’epoca del Maestro di Marradi e spesso coltivate negli orti dei monasteri.
N. 2 Forse Eliotropio (raffigurazione parziale)
N. 3 Molto probabilmente una specie di Elleboro
N. 4 Probabilmente Origano comune
N. 9 Probabilmente Cumino dei prati
N. 14 Probabilmente Ranuncolo dei campi
N. 16 Molto probabilmente una specie di Ciclamino spontaneo
N. Probabilmente Anagallide dei campi
Nel breve saggio di Franco Scalini ho trovato particolarmente interessante l’osservazione iniziale relativa a quella porzione di recinto che il pittore ha voluto rappresentare a sinistra del manto della Vergine.
Mi piace l’idea che il Maestro intendesse in tal modo guidare il nostro sguardo all’interno dell’orto botanico della Badia: uno spazio creato e organizzato dai monaci con una sua rilevante funzione.
Nei documenti è più volte ricordata l’accoglienza e la cura che i vallombrosani destinarono nei secoli ai malati, oltre che ai poveri e ai pellegrini che bussavano alle porte dei conventi.

E poiché non dappertutto e non sempre potevano disporre di medici qualificati, intervenivano comunque con le risorse della fitoterapia, pratica da sempre diffusa nella tradizione benedettina e particolarmente cara ai vallombrosani, esploratori dell’ambiente naturale, studiosi e sperimentatori delle virtù curative delle piante.
La bassa staccionata a sinistra allude dunque all’orto monastico, ma il fatto che nessuna recinzione sia presente sul lato destro non può essere casuale: potrebbe voler rappresentare quella comunicazione con l’esterno, con il mondo che ipotizza Franco Scalini. Un particolare interessante, di certo presente nella mente dell’artista e del suo committente.
Da una parte il convento si chiude, dall’altra si apre.
Non era forse questa la natura prima e originale dell’Ordine vallombrosano? Il modello di vita proposto dal fondatore, il giovane monaco ribelle Giovanni Gualberto, prevedeva la piccola città santa – il monastero – come esempio visibile di opposizione assoluta alla perversione del mondo, anche ecclesiastico, ma nel contempo di apertura verso i fratelli, compresi tutti quei laici che volessero avvicinarsi e partecipare, anche senza l’obbligo di prendere i voti. Li chiamavano “conversi”.
La regola vallombrosana li previde fin dall’inizio. Uomini di qualunque origine che potevano proporsi all’abate per essere accettati a spartire la vita morigerata e operosa dei monaci, nel nome della comune fede nel Signore Onnipotente, in cambio del loro aiuto materiale, pur mantenendo i primitivi legami col mondo esterno. (7)
E dai monaci i conversi apprendevano l’arte di coltivare razionalmente le terre, la cura dei boschi e dei pascoli, i segreti dei mestieri e delle arti. In tempi dominati da avidità, prevaricazione e violenza, il monastero vallombrosano offriva un’alternativa di vita, ispirata ad altri valori. Dunque, al di sotto del manto della Vergine, il Maestro ci ha presentato qualcosa che ha a che fare con la realtà storica del monastero marradese sul finire del XV secolo. È “il vero messo in figura”: luoghi, persone, cose. (8)
In alto, invece, dal punto in cui il manto della Vergine perde le sue sembianze di antro ombroso che tutti accoglie, ma va a chiudersi nel collare prezioso sigillato da un medaglione di squisita eleganza, la testa regale della Vergine si staglia in una luce di paradiso, non più terrena. Bella e lontana, assorta nella sua malinconia.
Siamo adesso nell’alto del cielo, dove volano gli angeli. Un nastro rosa si snoda in sinuosi viluppi, trattenuti sul capo divino, come a innalzarlo oltre la corona, oltre l’aureola, nell’immenso.
Rosa: il colore dell’alba, della giovinezza, della speranza.
Pare ben strano a noi contemporanei che un quadro tanto bello e denso di significati sia stato nei secoli scorsi a lungo relegato sul muro del chiostro del monastero, vicino alla porta della cantina. Ho scoperto che in quel- l’impropria collocazione lo vide – e ne rima- se folgorato – l’abate Arsenio Barboni, che governò per diversi anni la nostra badia di Santa Reparata, insediandosi per la prima volta nel 1704 e risiedendovi poi stabilmente dal 1706 al 1717. Questo anziano abate è autore di un gustoso diario dei suoi giorni nel monastero in mezzo ai monti che, pur sacro e venerabile, è situato in luogo assai orrido e alpestre, sottoposto per ciò in tempo d’inverno a nocive crudezze d’aria, a nevi.… a ghiacci e freddi rigorosissimi.

Racconta poi del suo rammarico per aver trovato quel quadro, una tavola molto antica sì ma assai bella … rappresentante la gran Madre di Dio, Maria Vergine Santissima, la qual tavola soleva star affissa nel muro del chiostro appresso la porta di cantina, che per esser stata esposta all’umidità ed inclemenza dell’aria si vede che ha patito alquanto …
E l’anziano abate, quasi preso da un subitaneo innamoramento per quel quadro ferito dall’incuria, concepì l’idea di costruirgli un ambiente tutto suo, una cappella-oratorio annessa alla stanza sua privata, come a voler risarcire la bellissima Vergine delle offese patite in passato, assicurandola per il futuro.
… e più avrebbe patito in avvenire se detto Padre Abate non l’avesse assicurata e collocata in luogo più conveniente e decoroso, il che è stato una delle principali cause per le quali egli ha eretto detto Oratorio, o cappella dedicata alla madre gloriosissima di Dio, intitolata, da lui (per essere rappresentata che sotto il suo manto ricovera più fedeli persone di diverso stato e censo) siccome ancora è chiamata nelle litanie da chiesa Santa Refugio dei Peccatori… (9)
Un eccentrico abate del secolo XVIII: unico, per quanto mi risulta dai documenti, ad essere stato toccato dal fascino di questa Madonna della Misericordia, che al presente occupa una posizione di trionfale rilievo nell’abside della chiesa di San Lorenzo in Marradi.
È qui, vicino a noi, accanto alle altre opere che dalla chiesa abbaziale della Badia – per la quale erano state create- sono state trasferite al sicuro.
Ultima a tornare a Marradi dopo il restauro, alla messa di mezzanotte del Natale dell’anno 2013 ricomparve ai fedeli nella luce della sua bellezza.
Era l’ultimo Natale per il nostro vecchio arciprete Guglielmo Patuelli, che tanto si era impegnato nel corso della sua vita perché i quadri del Maestro di Marradi venissero ripristinati con la massima cura.
E qui ancora adesso guardiamo quella Vergine. La interroghiamo. Essa dispiega per noi un racconto di fede, di speranza nella Misericordia divina. Ma insieme, parla di storia umana: fatti, persone, cose del nostro passato. Poiché le immagini della rappresentazione artistica parlano, con una loquacità superiore a quella di qualunque altro documento storico.
A volerle intendere.
Livietta Galeotti Pedulli
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Note al testo
- La studiosa Cecilia Filippini ha accertato la data di esecuzione della Pala di Santa Reparata: 1498. Ha inoltre ipotizzato che la Madonna della Misericordia sia stata dipinta dal Maestro di Marradi qualche anno dopo. Cfr: C. Filippini, Un compagno d’infanzia di Lorenzo il Magnifico, Toddeo Adimari…, in “Antichità Viva”, XXXl, 2, 1992, pp. 18-24.
- C. Filippini, cit. Un’ampia e suggestiva trattazione della figura del Milanesi è nel recente: F. Salvestrini, Il carisma della magnificenza, Viella Editore, Roma, 2017.
- L’identificazione dei due monaci oranti è in Vallombrosa-Santo e Meraviglioso luogo, a cura di R.P. Ciardi, Ed. Banca toscana, Ospedaletto (Pisa), 1999.
- Cfr. Federico Zeri, La mostra “Arte in Valdelsa a Certaldo”, in “Bollettino d’Arte”, XLVIII, 1963, pp. 245-258.
- Cfr. L. Galeotti Pedulli, Alla scoperta del Maestro di Marradi, Edizioni Polistampa, Firenze, 2009, p. 26.
- Lo scritto di Franco Scalini è inedito. Una pubblicazione parziale della sua “Nota sulla flora raffigurata nell’opera Madonna della Misericor- dia del Maestro di Marradi” si può leggere sul numero 122 del periodico dell’Unità Pastorale di Marradi “Il Marradese” maggio-agosto, 2018.
- La più approfondita analisi dell’istituzione dei conversi vallombrosani si trova in F. Salvestrini, Disciplina caritatis, Biella Editore, Roma, 2008, pp. 245-302.
- Colgo questa impressione a p. 66 del saggio di Cristina Muccioli, L’estetica del vero, Prospero editore, Novate Milanese, 2018.
- Le testimonianze dell’abate Arsenio Barboni sono in ASF (Archivio di stato di Firenze), Corporazioni Religiose soppresse, Ripoli, filza 385.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – Febbraio 2020