Il grande Novecento della biologia – Parte 3
MUGELLO – Abbiamo parlato della variegata composizione del nostro DNA, accennando che ce n’è una parte di origine retrovirale: ma cos’è un retrovirus? Partiamo da cos’è un virus. È una particella dotata della capacità di replicarsi in particolari condizioni, ma può anche cristallizzare, il che rende persino difficile stabilire se è vivo o no. Comunque, un virus è costituito da un involucro proteico che ha all’interno un acido nucleico, di solito DNA. I retrovirus invece contengono nell’involucro RNA. Questo RNA invade la cellula, entra nel nucleo e produce una copia di se stesso come DNA, integrandosi nel DNA della cellula. Se l’infezione riguarda cellule riproduttive (ovuli o spermatozoi), il DNA virale sarà ereditato insieme a tutto il DNA. E così diventerà un retrovirus “endogeno”. L’8% del nostro genoma umano, come abbiamo detto, è costituito da DNA retrovirale, divenuto endogeno nel corso della nostra storia evolutiva ed entrato via via in tempi diversi.
Thierry Heidmann, dell’Istituto Roussy di Parigi, ne è divenuto un esperto. Negli anni ’80 si era constatato che in alcuni tumori e nel tessuto placentare c’era abbondanza di DNA virale. Così Heidmann iniziò a ricercare retrovirus nella placenta umana: ne trovarono col suo gruppo una nuova famiglia e ne trovarono anche nelle placente di altri mammiferi. L’entrata nella linea dei mammiferi sembrava risalire a 100 milioni di anni fa. Nei primati si erano copiati come trasposoni 200 volte (il vantaggio di avere molti geni uguali sta nel fatto che, al bisogno, si può avere una produzione di proteine in massa). Nel frattempo era stato sequenziato il genoma umano e, passandolo al vaglio, scoprirono venti geni che producevano un involucro virale. Alcuni di questi, chiamati sincitine, erano presenti nella placenta; il nome derivava dal fatto che in laboratorio avevano mostrato la capacità di eliminare le membrane cellulari da una massa di cellule, rendendole una “specie” di sola cellula con molti nuclei. Poiché nella placenta, anche in quella umana, esiste un simile strato di cellule che fa da filtro tra il sangue della madre e quello del feto, apparve chiaro che le sincitine avevano un ruolo nella sua formazione. Esperimenti fatti sui topi mostrarono che, se durante la gravidanza si bloccava questo gene, gli embrioni venivano abortiti. Cercando nelle placente degli altri mammiferi, ovunque si trovarono sincitine diverse, il che spiegava la diversità delle placente. Persino nei marsupiali ne fu trovata una, che dava però origine ad una placenta transitoria. Infatti i marsupiali partoriscono embrioni in uno stadio iniziale di sviluppo. Ma le sincitine hanno anche un altro ruolo: sopprimono la risposta di rigetto della madre verso il feto, che, avendo un DNA diverso, dovrebbe venire distrutto dai globuli bianchi. Evidentemente, non tutti i retrovirus vengono per nuocere.
A questo punto, è bene ricordare che un mammifero è un animale a sangue caldo, coperto di peli e che allatta i piccoli. Esistono tre tipi di mammiferi: i Monotremi (echidne ed ornitorinchi), che depongono uova, i Marsupiali, che partoriscono embrioni ai primi stadi di sviluppo, ed i Placentati, che partoriscono prole sviluppata (completamente o quasi), perché sono dotati di placenta. Gli studi di Heidmann (e non solo) hanno dimostrato che i retrovirus che producono le sincitine hanno infettato le diverse linee evolutive dei mammiferi in tempi diversi: i Marsupiali (da 80 milioni di anni), i Primati (di cui anche noi facciamo parte, da 40 milioni di anni; i Roditori ( da 20 milioni di anni) e i Ruminanti (da 30 milioni di anni). Invece i Monotremi non sono mai stati infettati. Ma che gruppo è quello dei mammiferi, così diversificato al suo interno? Ma allora, come funziona l’evoluzione? A quanto pare sembra assomigliare ad un intrico inestricabile, più che all’albero con cui viene comunemente rappresentata.
Già avevamo visto che il concetto di specie poteva essere messo in discussione. Ma la conoscenza del nostro genoma ce lo rende ancora più fragile. Infatti tra i nostri geni ce n’è un 2-3% che provengono dall’uomo di Neanderthal, il che sta ad indicare che fenomeni di ibridazione, anche se abbastanza sporadici, in passato si sono registrati. Ora, l’ibridazione in teoria non dovrebbe esistere tra specie diverse, e invece non c’è solo il fenomeno eclatante del mulo, ibrido di cavallo e asino, ma a quanto pare ci siamo anche noi, anche se per poco. Inoltre, l’ibridazione è un fenomeno molto diffuso tra le piante e, se si va a livello di batteri ed archei, è praticamente la regola, dato che qui il trasferimento genico orizzontale è la norma. D’altronde anche negli animali e nelle piante si trovano esempi di trasferimento genico orizzontale. Abbiamo parlato a lungo di retrovirus e DNA retrovirale, per cui, una volta di più il concetto di specie non può basarsi su un isolamento genetico che di fatto non c’è. Resta allora il problema di ridefinire il concetto di specie, oppure limitarsi a considerarlo una categoria di distinzione pratica, ma senza un vero valore concettuale. La nostra linea evolutiva si è separata dai progenitori dei Neanderthal intorno a 600 mila anni fa: noi restammo in Africa e loro vennero in Europa, dove originarono i Neanderthal, di pelle bianca e capelli rossi (lo sappiamo perché Svante Paabo ed il suo team hanno decodificato il loro DNA). Quando noi lasciammo l’Africa, tra 100 e 60 mila anni fa, trovammo i Neanderthal in Palestina e lì facemmo qualche ibrido. Poi ce ne venimmo in Europa, oltre che in Asia e in Australia, noi neri, poi divenuti bianchi per motivi di sopravvivenza, mentre i primi europei si estinguevano. Gli africani rimasti in Africa non hanno tracce del genoma neanderthaliano, perché non li hanno mai incontrati. Ma nel nostro genoma ci sono persino alcuni autentici geni di scimpanzè! Sì, è proprio vero: il nostro genoma è un mosaico.
Anche il concetto di individuo è un po’ incerto. Se noi ci sentiamo ciascuno un individuo, basti pensare che noi ospitiamo un 100 triliardi di altre cellule (individui?) senza le quali non potremmo vivere. E tra le formiche, ad esempio, l’individuo è l’operaia, che non può riprodursi, la regina, che si riproduce, ma non può vivere da sola, o l’intera colonia, che riassume in sé tutte le funzioni vitali?
Ancora, se l’evoluzione è un fenomeno ormai sicuramente certo, così non è per le sue modalità. La selezione naturale sulle variazioni che si presentano ad ogni generazione, come sosteneva Darwin, è una delle modalità, ma probabilmente non la principale. Nella storia della vita ci sono momenti (estinzioni o nuove comparse) che sono troppo repentini per poter essere giustificate da meccanismi darwiniani. Una giustificazione può essere il trasferimento genico orizzontale, con le sue varie modalità: ma esso configura un meccanismo di acquisizione dei caratteri che è di tipo lamarckiano, non darwiniano. Una volta di più siamo travolti dalla complessità dei fenomeni che chiamiamo vita.
Lo spunto per questi miei ultimi interventi me lo ha fornito un libro trovato nella biblioteca comunale di Borgo San Lorenzo: “ L’albero intricato”, di David Quammen, edito da Adelphi nel 2020. Per me è stato una scoperta avventurosa. Mi auguro che possa esserlo anche per altri.
Paolo Bassani
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 3 ottobre 2021