Stesso periodo: primo Cinquecento. Stesso talento: un genio inquieto, eretico. Stesso luogo: un monastero e una chiesetta a un tiro d’arco di distanza, Luco e Grezzano. La stessa bellezza: spaventevole, esplosiva.
I pennelli sono tra i migliori in assoluto. Non parlo della sola arte fiorentina, e già saremmo nell’Olimpo. Parlo della storia della pittura universale che approda proprio qui, e vi rimane a lungo, immersa tra campi di papaveri e macchie di ginestre.
Andrea del Sarto dipinge il Compianto – o Pietà di Luco – su commissione della badessa. Il pittore si è rinchiuso nel monastero femminile di San Pietro per sfuggire alla peste. Ha con sé la moglie, dipinge ogni giorno, passeggia. La badessa, Caterina della Casa, coglie al volo l’occasione: un’opera d’eccellenza, di mano superrima, per il suo convento. E visto che c’è, com’era d’abitudine, farsi ritrarre nel volto di una santa.
Andrea accettò, pretese 80 fiorini – un bengodi, vedi un po’ quanto la Repubblica di Firenze pago’ Michelangelo per il David – dipinse un olio su tavola di due metri e quaranta per due, una pala bellissima, figure forti e colori pastello, proprio la tavola che hai incontrato per prima nella mostra sul Cinquecento fiorentino, un pugno di mesi fa. Il calice dell’eucarestia, davanti al corpo disteso del Cristo morto, ti dice che la battaglia è iniziata. La riforma luterana ha scatenato l’inferno negli stati tedeschi, ora si sposta su Roma.
A pochi passi dal monastero, in aperta campagna, anzi in prossimità del bosco, svetta la chiesa di Santo Stefano. Il luogo è Grezzano. Il tempio ha conservato per secoli una delle opere più anticonformiste del secolo, una tempera in controtendenza, il sigillo sulla ‘maniera’ di quell’eretico che fu Rosso Fiorentino, proprio lui, l’autore di una delle dieci opere considerate di valore assoluto: la Deposizione (oggi al museo di Volterra).

La tavola – una Madonna in trono e quattro santi, con due splendidi angioletti che leggono un libro ai piedi del trono, stile Raffaello – capitò per caso quassù. Il rettore dell’ospedale fiorentino, Leonardo Bonafede, commissiona a Rosso la Madonna. Quando il pittore si presenta al suo cospetto, a lavoro eseguito, il committente urla, si sbraccia, è una belva. San Girolamo pare un diavolo, San Giovanni è incupito. La tavola lo offende, non s’è mai vista una rappresentazione del genere. Rasenta la blasfemia. E invece era semplicemente magnifica. Com’è evidente, i due entrano in conflitto. Rosso pretende i suoi soldi, Leonardo non intende pagare. Troveranno infine un accordo ma la tavola se ne andrà da Firenze, esule in una chiesetta di campagna di proprietà dello spedale. Per adattarla al nuovo altare, San Leonardo prende le fattezze di Santo Stefano. È il titolare della chiesa di Grezzano. Sulla sua testa viene aggiunta una pietra. Morì lapidato.
I due capolavori brillano oggi alla Galleria Palatina e agli Uffizi. Immaginati ora l’effetto provocato sui contadini da tanta formidabile bellezza. Nascevano e morivano ai margini di un campo, si muovevano solo per le processioni religiose e talvolta per il mercato. Ciò che ascoltavano in chiesa, ciò che vedevano in chiesa rappresentava per loro il mondo intero. Ecco, quassù si imbatterono anche nell’infinito.
Riccardo Nencini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 14 ottobre 2018