BARBERINO DI MUGELLO – Nei giorni scorsi il Comune di Barberino di Mugello ha reso omaggio a un grande critico letterario e poeta italiano, Piero Bigongiari, che visse a Barberino e a Barberino è sepolto. In questo scritto Mario Aiazzi Mancini ricorda il Piero Bigongiari mugellano.
Piero Bigongiari (1914 – 1997), poeta e critico letterario italiano, è mugellano d’adozione, tanto che chiese di essere seppellito -e lo è- nel cimitero di Barberino di Mugello.
Il contatto tra uno dei poeti della terza generazione fiorentina del Novecento – insieme a Luzi e a Parronchi – e il paese circondato e protetto dagli “antemurali” dei monti della Calvana avviene grazie ad Elena Aiazzi Mancini. Giovane figlia del prof. Mario Aiazzi Mancini – figura di spicco nella comunità barberinese del dopoguerra, nonché proprietario dell’omonima farmacia nella piazza del paese – nel 1949 Elena diventò moglie di Bigongiari, che la definì «mia amante o sorella o madre o stella». A partire dagli anni Cinquanta, Barberino di Mugello fu per i coniugi Bigongiari il luogo di riposo e la «dimora vitale» in cui trascorrere a tratti l’estate e l’autunno, lontano dai clamori e dall’afa del capoluogo fiorentino. Numerose sono le poesie, pubblicate in Il corvo bianco, Le mura di Pistoia e Torre di Arnolfo (raccolte in Stato di cose, 1964), in cui al centro ci sono immagini e rimandi espliciti al paesaggio e alla natura del territorio barberinese. Ma Barberino compare anche nel suo diario, il Giornale 1933-1997, e molte sono le poesie, edite e inedite, sono state scritte a Barberino fino alla morte; senza tralasciare la prosa La tela di Aracne (1985), ambientata proprio nel giardino della casa di Barberino.
Con questo scritto -pubblicato sul prprio profilo Facebook, Mario Ajazzi Mancini, suo nipote, ricorda il Bigongiari mugellano:
Sono i primi anni ’50, e Piero, transitando lungo le sponde del grande fiume di Toscana, è approdato nella valle della Calvana e del Giogo. L’estate declina e l’aria più umida tratteggia il profilo delle colline di vapori che richiamano una marina: “fantasmi di gioventù” – scrive – osservati, in attesa, dal balcone di questa nuova casa che da poco l’ha ospitato. Lo sguardo coglie a fatica bagliori di ferro sui campi arati, contorni d’oro e turchino, fin dove è possibile sporgersi. Ampiamente, tanto da incastonare la visione in un idillio: “Tra le palpebre d’oro ha sonno il verde, / della stanza celeste azzurro zoccolo / sta la Calvana, sulle siepi l’ombra / polverosa tra argentea oscilla e vana. // Scende la Stura…”. Semplice forma dove, nella misura breve delle quartine, si distende quell’esperienza di pensiero che la poesia, soltanto, riesce a rendere, a restituire oltre gli inganni. Sono i paesi, i paesaggi, infatti, che a Piero sembrano “consistere”, consolidarsi in una sorta di “oggettività più spinta” che appena riluce come una provocazione; quasi giungesse dalla vallata al balcone, nella promessa di un amoroso abbraccio, richiamato dal canto “roco” e “ironico” di un fagiano.
Sono anni volatili – ci tornerò – di voli e migrazioni. Gli anni che Piero avvicina in Mugello, dopo quelli più aspri della formazione. Da Navacchio, dove è nato, a ritroso sul fiume, verso Firenze. Qui studia e si laurea mirabilmente con una tesi su Leopardi che farà scuola e proseliti. Attraversa l’ermetismo, con i sodali Luzi e Parrochi. Va in guerra, portandosi dietro una formidabile raccolta: La figlia di Babilonia – del 1942.
Poco dopo incontra Elena che ha un cognome mugelleno di “origine controllata e garantita”. Ajazzi Mancini, come chi scrive. Figlia del Professore. Illustre farmacologo e antifascista, patrono laico di Barberino ed alfiere generoso della ricostruzione. Da via Cavour a piazza Cavour, da Firenze a Barberino: ampie estati danno corso a rituali antichi, che Piero accorda, in famiglia, con partite di bocce e scopone scientifico. Consuetudini che divide con abili giocatori del posto. Ugo, Aldo e Franco abbandonano il bar centrale per smazzare con lo scrittore affabile che li invita nelle fresche stanze della palazzina. Girano le carte, accompagnate da brindisi col Giotto – il liquore che il Professore ha distillato in omaggio all’ottimo pittore che era cresciuto all’altro capo della valle. Arrigo lancia le bocce, in fondo al giardino. C’è solo una rete che separa il pallaio dai campi. I bambini spiano silenziosi. Le massaie scendono alla Stura con le zangole dei panni. Qualche volta, giungono ospiti illustri delle patrie lettere – Piero si è già fatto grande onore. Rammento, confusamente, Giuseppe Ungaretti. Seduto sotto le magnolie giapponesi che la Linda – Ajazzi Mancini, naturalmente – aveva scelto per adornare il suo parco, misurato da vialetti di ghiaia e serenelle. Parlano a lungo. Piero sommessamente, col garbo abituale. Giuseppe con quella voce tonante che non si dimentica, dopo averla udita in televisione a recitare Omero.
È l’inizio. L’origine di una vicenda valligiana. Altre visite, altre accoglienze. Sempre più frequenti. Un gran movimento per un viaggiatore “immobile” come Piero. In fondo, soltanto la curiosità alza l’intelligenza e la ricerca. E col Professore non mancava davvero. Su e giù per la valle. Piero, Elena, l’altro Piero e i nipoti. Alla Futa, fino Pietramala; lungo la Sieve, San Piero, Borgo, la casa di Giotto, fino al Castagno d’Andrea – solo più tardi, Marradi, per risolvere l’arcano di un poeta visivo. Il perimetro si estende insieme all’idea di una dimora – compresa quella finale del cimitero di Barberino, dove Piero, per sua volontà, riposa davanti ad un alberello…
Il Mugello è divenuto il luogo di un pensiero e di una raccolta: gli anni – dice – si aiutano reciprocamente a fare quel mannello che la vita lascerà sul “campo mietuto”. Ma la storia è troppo recente e troppo lontana anche, per essere tenuta in un solo ricordo, pure onesto. Ne darò qualche brandello, cercando di abbracciarne un tratto.
Innanzitutto, la scuola come accennavo. Lo spostarsi estivo dalla fiorentina via del Parione alla piazza di Barberino. Piero aveva inventato un istituto di “contemporaneistica” dalle ceneri crociane di una università che solo allora iniziava a svecchiarsi. Guardando all’Europa, e oltre, con l’occhio vorace del cacciatore alla posta. Traduceva – e di lì a poco sarà tradotto. Con Oreste prima ed Adelia poi, aveva animato una sorta di cenacolo, in verità pomeridiano, dove si discuteva, con colleghi ed allievi, delle vicissitudini di una cultura italiana che tutti e tre si prodigavano a ricomporre in un nuovo decoro. Circolavano nomi sediziosi di sovversivi dell’intellettualità: Lacan, Derrida, Foucault ed i poeti di Francia, Dylan Thomas (che di Piero era stato amico) e Roethke, ma anche Heidegger ed i fisici tedeschi… per non parlare di Freud, le cui traduzioni cominciavano solo in quegli anni (dai ’60 ai ’70) a passare. Una maniera eccentrica di leggere e scrivere, tanto la critica quanto la poesia – per chi poeta lo era sul serio. Ebbene, da giugno a ottobre – la deadline era il compleanno di Piero, nel quindicesimo giorno di quest’ultimo mese – il cenacolo si stabiliva in Mugello. Si facevano visite, si raccontavano storie – le stesse di Firenze, con “campagnole” variazioni. Oreste – Macrì, s’intenda – era quello più assiduo. Amava questi luoghi e l’ospitalità. Ma non solo lui. Dovrei elencare tanti nomi che questa breve nota non potrebbe contenere. Faccio eccezione per Enza Bigini e Gaetano Chiappini che mi sono a cuore – gli altri non me ne vorranno. Entrambi, a proprio modo, hanno accompagnato Piero fino agli ultimi giorni, con assiduità; ed hanno assistito alla trasformazione di una terra e di una civiltà, al riscriversi della cultura e della tradizione parallelamente all’industrializzazione della valle.
Di tutto questo, credo, reca traccia un passero “grasso” che Piero ha visto in Austria, e che, dicendone, gli è parso tratteggiare la medesima sorte che, tramite Elena, lo richiamava a casa – come in un autoritratto: “un destino che cammina / con le zampe di un passero e non vola / o forse vola con un gran peso […], / l’anima che s’è accesa sul lago di questo poeta non laghista, non / carinziano e nemmeno goethiano, / e nei tuoi occhi, Elena […]: / lente ustoria che accende torno torno l’orizzonte / fino a un nido, al riparo”.
Ancora uccelli: emblema del viaggio e del rimpatrio al “luogo amato” della vita. Merli, piche, un corvo bianco, il falco abbattuto del primo grande Inno. Segni del tempo in un istante, perché esso è eterno – scriverà infine Piero – e incammina su tracce lievi all’esperienza di un incontro. Che questo con la valle sia stato fortunato, lo testimonia più d’un dato.
“Voci di uccelli udivo a certe fasi ([…] di scrittura) che poi si rivelavano conclusive, come in un controcanto sul paesaggio” – voci del mondo, di messaggeri di mondo (mi piace immaginare, perché non posso più chiederglielo) che vengono all’affaccio dello studio a dettare, in forma alata. Per ripartire poi subitamente, lasciando Piero a corteggiare l’enigma, a interrogarlo, non per scioglierlo certo, ma per consegnarlo al successivo messaggero – pica o merlo, poco importa – perché lo trasporti in volo al limite delle colline, nel bosco delle querce, a rilucere come un sassolino referenziale, sul quale tornare di nuovo a leggere. Poiché, lo sappiamo, nella lettura si rivela il dettato, il dettato credibile della poesia. In un frammento del diario del ’95, scritto a Barberino, Piero confessa scrupoloso: “Una lettura che non rispetti il testo e insieme non lo superi, in quella particolarità in cui lo stesso testo supera se stesso, è lettura passiva e inutile. Il testo ha una entità […] definibile solo attraverso la sua infinita possibilità di lettura. Per questo […] non finisce di essere quello che è, in quanto appunto è letto in termini molteplici. Tale possibilità multipla […] risponde all’infinita produzione di senso che il testo, se è […] poetico, contiene grazie a quella continua eccedenza di senso di ogni significato che non sia meramente comunicativo”.
Potrei suggerire che di simile eccedenza la valle gli ha mostrato, più che altrove, la perpetuità, il continuo riprodursi nel rallentato delle stagioni. Se seguiamo – e qui è possibile solo di sfuggita – i tratti mugellani di questa mirabile pratica, dall’idillio alle ultime poesie, troveremo nelle marche naturalistiche del paesaggio quel medesimo controcanto, l’opportunità di una risalita all’origine che è pure un deciso avanzare verso la foce, per sospendere la necessità inderogabile della parola – la sua unavoltità, mi piace figurarmi – ed affidarla al calcolo probabilistico. Tanto più inaspettato, quanto più si estende alle combinazioni significanti che riprendono il reale e lo consegnano alla dizione, alla voce che lo mette in funzione.
La nominazione è improvvisamente evento. E gli spazi nient’altro che il teatro psichico di questo. Realtà anticipata, in un brivido incerto del pensiero. Perché Piero ha vissuto la grande scissione della modernità, cercando di abitarla in una res intensa, fiducioso nell’atto che può davvero trasformala. Così il suo Mugello, la valle del suo buen retiro estivo, della vicenda della sua famiglia, degli amici che lo visitavano, dei giocatori di carte e/o di bocce, dei luoghi che ha incontrato e raccontato nelle ultime fluviali scritture, non è che un’ansa nell’immenso delta di quel poema che è la vita, dove un piede pudico si fa innanzi, esitando, per ritrovarsi davvero nella stessa operazione di calcolo, nella mirabile teoria che rispondendo all’enigma, restituisce l’enigma… Simile a quello degli asfodeli, dei daffodils, che intrecciano in un recondito legame i giardini di South Kensington ed il fiore della valle – di ben nota e dannunziana memoria. Disegno indiscernibile che potrei accostare alla nostalgia. La stessa – mi si conceda – di cui recentemente ha detto un amico che amava volare ultraleggero tra le pievi. Testimone di una per lui dolorosa modificazione infrastrutturale, richiamava, assieme al periodo aereo, un’idea di Mugello che desidero trattenere – per Piero e gli Ajazzi Mancini, certo ma anche per Dino che l’ha evocata. Terra di adolescenze, luogo di promesse e di rimpianti, eppure di un’innominata felicità: “I cammini del senso sono strani, / deviano spesso misericordiosi / in altri, e vani, suoi significati, / e daffodils chiamammo per il resto / del viaggio il mistero oculare / di una felicità che non ha nome / se non nella più ampia identità / sfuggente a ogni sguardo”…
Mario Ajazzi Mancini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 24 aprile 2019