Quando la terra tremò. Carlo Lapucci recensisce il libro di Adriano Gasparrini
MUGELLO – Carlo Lapucci è figura di rilievo nazionale nello studio delle tradizioni popolari e della linguistica. Scrittore, con opere saggistiche, di narrativa e di poesia, Lapucci è mugellano, nativo di Vicchio nel 1940, e ha pubblicato numerosi volumi, primo tra tutti, il Dizionario dei proverbi italiani edito da Mondadori, che gli ha pubblicato anche “Fiabe Toscane”, nella collana degli Oscar. Lapucci è venuto a Vicchio a presentare il lbro di Adriano Gasparrini “Quando la terra tremò” e ha scritto anche un’ampia recensione, che “Il Filo” pubblica in esclusiva.
Per natura siamo portati a dimenticare: è una meccanica salutare che libera la mente dalle esperienze negative insostenibili, le quali sommate tutte insieme diverrebbero ossessive, e al tempo stesso è un espediente per liberarsi dei debiti che abbiamo con la vita. Spesso le due cose si combinano e la retorica col sentimentalismo creano dei comodi feticci, imbalsamano dolore e responsabilità in formule convenzionali, come fanno le api che chiudono in un sarcofago di cera i corpi estranei e animali che non possono espelle dall’arnia. In questo caso il ricordo, non più partecipato, non più sentito, entra nelle forme inerti della consuetudine indolore, della commemorazione indifferente.
Le cose del passato veramente non esistono più se non sono rivitalizzate e i morti sono scomparsi, se non si dona loro una parte della nostra vita con un pensiero affettuoso con una partecipazione cordiale che unisce vitalmente tutto quello a cui ci si rivolge.
Queste considerazioni vengono leggendo il volume di Adriano Gasparrini che, con questo libro: Quando la terra tremò. Il terremoto del 29 giugno 1919 in Mugello, ha ridato anima a coloro che attraversarono il terribile evento che costituisce un sedimento irremovibile anche nei ricordi delle generazioni che non l’hanno conosciuto direttamente.
Il volume si segnala soprattutto per non essere una riesumazione, uno di quegli album di fotografie che si sfogliano dai testimoni per ricordare qualcosa e dagli altri per sapere e poi si ripongono nello scaffale dei libri commemorativi o in quello dei documenti.
Nel centenario di questo evento il volume vuole essere insieme a un bilancio preciso, soprattutto un itinerario tra i luoghi e gli eventi, con notizie circostanziate, foto, immagini nuove e contestualizzate, narrazioni d’eventi precise. Questo invita non a commemorare, ma a rivivere quei momenti che non sono poi lontani: ad esempio li ho sentiti narrare da tanti, dalla nonna, dal babbo che quando la terra tremò aveva 21 anni, e mi sono rimasti senza che il tempo li abbia cancellati.
Oltre al complesso straordinario del corredo fotografico, e la narrazione attenta a quei particolari significativi che in genere si trascurano, sono altre notizie che avvicinano questa realtà passata a quella attuale, come ad esempio i nomi e i cognomi di coloro che sono scomparsi in quella catastrofe. Fin dal verificarsi di un disastro si assiste all’inizio dell’oblio e già l’ora dell’avvenimento corrode una sia pur minima parte del ricordo. Pian piano i nomi di persone vive, scomparse in un attimo, perdono identità ed entrano nel novero delle generiche vittime.
In compenso i viventi gratificano gli anonimi defunti cancellando le cose più scomode, dimenticando, oppure obliano volutamente i fatti disonorevoli che pure avvengono anche in questi momenti. Lo storico non li deve cancellare: sono quelli da cui si deve trarre l’insegnamento più importante.
Giustamente l’autore raccoglie con attenzione e senza retorica Sono i fatti individuali, scelti e volti a rendere vivo il quadro generale e offrire ai lettori gli appigli per ricostruirlo con la propria sensibilità. Non si tratta di aneddoti, ma di vedere come l’individuo, il protagonista, il gruppo, la realtà concreta umana vive il fatto storico.
Qui, ad esempio, nel capitolo Dalle baracche agli alloggi popolari, si racconta e si documenta il fatto di un proprietario che «non volle spendere neppure un soldo non solo per ricomprare i bovi indispensabili per i lavori agricoli, ma neppure per il montaggio di una baracca con il legname che il Genio Civile allora distribuiva gratuitamente. Viveva ancora nella misera capanna di paglia che si era costruito e qui aveva dovuto passare l’inverno con i bambini e con la moglie che nel frattempo aveva partorito».
È un fatto che parla da solo e non ha bisogno di commenti: ognuno può tirarci fuori l’insegnamento di cui ha bisogno. Citiamo anche un altro fatto significativo, ma che trova purtroppo ampio riscontro ancor oggi nelle stesse situazioni, con lo sciacallaggio. Nel capitolo A Vicchio, epicentro del sisma, nel capitoletto “A Rupecanina”, si legge: «Altrettanto penosa la vicenda del parroco Raffaello Malandrini, imprigionato per due giorni tra le rovine, solo e senza cibo, tra i lamenti dei feriti e il tramestìo del ladri che gli sottraevano dal cassettone le cose di valore». Anche qui la nota e la citazione tolgono il fatto dal vago del “si dice” e “si racconta”.
Se non parliamo di queste cose, anche con nostra vergogna, l’umanità non cresce, perché della verità si fa un bel santino che ci fa già sentire tutti buoni. Non è uno sfregio a una popolazione generosa e coraggiosa che ha saputo risorgere da tanta rovina con infiniti atti umani ed onorevoli, buona volontà, sacrificio e fiducia, ma è un invito a riflettere sul fatto che l’uomo è capace anche di queste cose e ciò che conta è che in futuro ce ne siano sempre meno.
Bisogna avere il coraggio di dirle le cose, anche sapendo di far dispiacere a qualcuno: non bisogna mai pensare che un pietoso silenzio (che spesso può essere anche opportuno) sia più giusto e benefico dalla verità, perché solo con questa si può diventare migliori.
Un altro fatto che appare attraverso l’analisi puntuale di Gasparrini è quanto siano numerose tra le vittime i bambini. Questo non sarebbe apparso omettendo l’individuazione e l’età delle vittime. Si può pensare che la seconda scossa, avvenuta nel cuore del pomeriggio, li abbia travolti proprio a causa della paura generata dalla prima scossa della mattina, nel tentativo di preservali o averli vicini nel pericolo.
È fondamentale anche sottolineare il sovrapporsi del sisma all’epidemia detta spagnola, che già tormentava l’Europa. Mi ricordo da bambino leggevo sulle lapidi dei cimiteri la notazione morto, morta di spagnola, dicitura col tempo scomparsa. Fu un’epidemia a quel tempo nel suo pieno sviluppo, paragonabile alla morte nera, favorita dalla denutrizione e dalla miseria. Si era diffusa attraverso i soldati delle nazioni in guerra e durò dalla primavera del 1918 a quella del 1920, facendo in Italia 600.000 morti, a ben guardare quanti ne aveva fatti la guerra.
Mi sono occupato talvolta del terremoto in Mugello considerato giustamente terra ballerina. Partecipando alle celebrazioni di Sant’Agata ebbi modo di capire come questa terra abbia penato tanto con questo flagello e mi ricordai di quando da bambino seguivo le rogazioni come al parroco, che vi aveva perduto una persona cara, tremasse un po’ la voce cantando l’invocazione a flagello terrae motu. Del resto non sarebbe sorta una chiesa come quella dedicata alla santa se la calamità non avesse portato fino alla disperazione, né vi sarebbe venerata la Madonna dei Terremoti.
M’imbattei nel sisma anche nella trascrizione dello Zibaldone del P. Matteo Pinelli, Priore di Cerliano, un diario che è molto più di un chronicon, dove l’autore racconta la vita della sua parrocchia dal 1606 al 1663, con la peste del 1630 (che è quella dei Promessi sposi) e la narrazione nei Ricordi 1611 – Di Tremuoti grandi in Mugello. In quella parrocchia, di cui purtroppo anche in queste pagine si parla allo stesso proposito, il sisma fu talmente devastante che costrinse questo parroco a trasferirsi a Firenzuola per ben due anni dove, lavorando quale maestro e musico, mise insieme tanto da poter riedificare la chiesa e la canonica che erano state abbattute.
Terrore, morte, rovine, ma coraggio e animo fermo nel salvare e riaffermare la vita, trovai nella breve ricognizione che feci trascrivendo un altro diario, quello di cui in questo volume si riporta un brano nel capitolo Testimonianze e ricordi. Si tratta dalla narrazione icastica e asciutta fatta da don Enrico Donatini allora parroco a Vicoferaldi, sorpreso dalle scosse mentre riposava.
Aver vissuto l’infanzia in Mugello a ridosso di questo cataclisma, in mezzo a uno nuovo che era la Seconda guerra mondiale, cogliendone i ricordi, trovai risarcite le ferite provocate dal sisma, ebbi la precisa idea della forza e della determinazione del popolo in cui sono nato. Ora vedo quegli eventi, che mi furono raccontati, racchiusi degnamente in un volume completo che rende ragione delle mie curiosità, ma soprattutto dei miei sentimenti. Penso dunque che queste pagine possano essere uno strumento da diffondere e conservare soprattutto da chi ama questa terra, da diffondere e leggere nelle scuole, da conservare negli scaffali di casa e riguardare quando i casi non sempre lieti della vita inclinano l’animo verso lo sconforto, per ritrovare fiducia in se stessi guardando con quanta modestia, forza d’animo, fiducia, generosità i nostri vecchi hanno saputo asciugarsi le lacrime, rimboccarsi le maniche e continuare a credere nella vita.
Carlo Lapucci
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Salve, scrivo da Castel Bolognese. Ai soccorsi per il terremoto partecipò anche la squadra di pompieri volontari di Castel Bolognese, guidata da Arnaldo Cavallazzi (padre di mia nonna). A casa abbiamo qualche documento. Li mettevo volentieri a disposizione, come ne cerco altri, se possibile.
La ringrazio per l’attenzione,
Cordiali saluti Alessia Bruni