Il 30 dicembre 1943. Le bombe, un bambino, una scheggia in testa, il miracolo: Rossella Sargenti racconta di suo padre Silvano
BORGO SAN LORENZO – Lo scorso lunedì 30 dicembre a Borgo San Lorenzo si è ricordato il 76° anniversario del bombardamento che, nel 1943, devastò il capoluogo (articolo qui). Tra le varie iniziative Rossella Sargenti, con accanto babbo Silvano, ha emozionato la folta platea rievocando quei momenti tragici, atttraverso il racconto di cosa accadde a suo padre, allora un ragazzo di undici anni.
Ne riportiamo un estratto:
“Quella mattina non era freddo. Era inverno, eppure l’aria non era pungente come un 30 dicembre qualsiasi ti porterebbe a pensare. C’era luce e c’era rumore: il rumore di persone affaccendate, in procinto di andare al mercato come tutti i martedì. C’era il rumore delle chiacchiere nell’aria, come una qualunque, normale, mattinata di paese. C’era anche la fame, come sempre da un po’ di tempo, del resto. Silvano la sentiva fin dalla mattina presto, quel poco latte che aveva bevuto e la fetta di pane con un po’ di zucchero gli avevano riempito lo stomaco lo spazio di un’ora. Stava correndo su e giù per Santa Lucia insieme agli altri ragazzini, con le sue scarpe sfondate. Era il modo migliore per cercare di fregare i morsi allo stomaco. A vederli correre, mentre cercavano di arrivare per primi in fondo alla via, a sentirli gridare, ci si poteva dimenticare per un attimo che c’era la guerra.
Aveva passato la mattinata in officina, con il nonno Cesare. Il nonno gli aveva mostrato come battere il ferro, da che parte prenderlo e a misurare la forza a seconda di quello che si voleva fare. A Silvano piaceva stare a guardarlo, ammirava quella forza e quella precisione. Non vedeva l‘ora di poter fare quei meravigliosi arabeschi con il ferro. E invece per il momento si doveva accontentare di tenere puliti gli attrezzi. Oppure, come era successo quel mattino, ricevere un regalo dal nonno: trova i pezzi che mancano e rimontalo, gli aveva detto mostrandogli un accendisigari malandato. Era in quinta elementare e non amava particolarmente la scuola e lo studio.
Si era stancato di correre. Era di nuovo dentro l’ officina, alla ricerca di quei pezzetti, un paio di minuscole scatoline di ferro, per trovare il modo di rimontare l’accendisigari. E poi quel rumore. Corse nel piccolo orto dietro l’officina e alzò lo sguardo. Gli aerei non li aveva mai visti. Il cielo era limpido, terso come solo può essere in una giornata d’ inverno. E gli aerei erano tanti, sembravano uccelli che via via si facevano più grandi, più numerosi, più minacciosi. Un boato. Il nero. Il dolore. E poi più niente. Di tutto ciò lui, mio padre, non può ricordarsi; e quello che gli hanno raccontato in seguito è quel poco, o quel tanto, che lo riguarda.
Chi abitava nel cuore di Borgo, Via Lapi, Via Giotto, o vicino alla stazione ferroviaria, non ebbe il tempo di ripararsi e fu investito dal carico di bombe della squadriglia alleata di B25. Per un’ altra manciata di lunghissimi minuti si sente solo il silenzio. Prima che comincino le urla, i pianti, i nomi gridati, il rumore della gente che scava, quello delle ambulanze. C’è solo il Silenzio. Riescono a portarlo all’ ospedale di Luco, grazie ad un barroccio trovato da un amico. E lui è insieme ai feriti e a agli oltre 80 morti di quel giorno, con una piccola enorme scheggia di bomba conficcata in testa. In mezzo alla confusione, alle urla e ai lamenti, quel corpo esile pare non esserci più. Non si accorgono subito che respira ancora, passa un po’ di tempo, forse qualche ora.
Ho in testa l’immagine di una stanza mortuaria, fredda, illuminata dalle candele, con i cadaveri distesi l’ uno accanto all’altro. In mezzo a loro c’è un bambino di 11 anni aggrappato a un filo sottile che accanito resiste oltre ogni umano limite.
C’è una donna che si aggira tastando i polsi e cercando di portare aiuto, pallida, sudata ma instancabile: è la levatrice del paese, la Signora Elmi. Si ferma lì dove c’è Silvano, vede tutto quel sangue e la ferita alla nuca, quel taglio che nelle mia mente di bambina, in silenzio davanti ai racconti, ha sempre avuto l’ immagine di uno squarcio raccapricciante. Non ce la fa a passare oltre e il gesto di avvicinarsi alla ricerca di un respiro le viene automatico. E’ uno di quei segni del destino, in fondo: colei che si adopera per mettere al mondo, che scuote in attesa del primo strillo, sente che è vivo, ancora e nonostante tutto. Ed è come se gli desse di nuovo vita, come se Silvano si aprisse di nuovo a un lungo primigenio pianto.
Il dottor Cieri arriva. Altro segno del destino: è in licenza, quel giorno è lì solo perché la guerra e la morte gli hanno dato un permesso premio, solo qualche giorno. I genitori di Silvano lo implorano di fare qualcosa, ha solo 11 anni dottore, la prego lo salvi. Lo portano in sala operatoria. Nel caos e nella disperazione di quel 30 dicembre e di quelle ore, nella pressoché totale mancanza di tutto quel che serve al pronto intervento, riuscire ad operare qualcuno che a malapena respira, ad allestire un’ operazione chirurgica d’urgenza, è qualcosa di straordinario. Ed è un vero e proprio Miracolo di quelle mani, l’operazione va fino in fondo e il ragazzino è vivo, respira da solo.
Ad un certo punto, dopo più di un mese, ecco che arriva un punto fermo: il nonno porta il suo “regalo”, l’accendisigari. Silvano, nel suo letto, ce l’ha lì fra le mani. Ti ricordi? gli chiede il nonno, prova a smontarlo, vediamo se lo sai fare ancora. E lui lo fa; lentamente, ma inesorabilmente lo smonta pezzo per pezzo. È il momento della certezza: ce l’ha fatta davvero, sarà dura riappropriarsi delle abilità, della parola, dell’udito ma ce la farà.
Dovette ricominciare dalla prima elementare: non ricordava come si leggeva e come si scriveva. A quel tempo non esistevano insegnanti di sostegno capaci di prenderti per mano e di prendersi cura solo di te. Il suo udito non è stato più lo stesso da allora, ma le sue mani sì che sono rimaste le stesse: mani in grado di piegare oggetti alla loro volontà, di modellare il ferro e di crearne pezzi unici, di aggiustare quello che per i più è da buttare. Io e miei fratelli, se oggi siamo qui, lo dobbiamo al Caso, forse. O a Dio. O al Destino. Di sicuro a due Esseri Umani ostinati e meravigliosi, a lui che non si è arreso. I nipoti, sette nipoti, lo chiamano Nonno Martello e così, senza volerlo, hanno dato un nome a ciò che è stato per lui il senso della Vita da quel lontano 30 dicembre ’43: una vita di lavoro duro, giorno dopo giorno, affidandosi ai propri piccoli Talenti pratici, alla sua straordinaria manualità“.
Rossella Sargenti
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 3 Gennaio 2020