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MUGELLO – Il castagno ha avuto e ha una grandissima importanza nell’economia delle popolazioni dell’Appennino. Questa pianta, conosciuta dai romani, diventa fin dal medioevo fonte primaria di sostentamento. La diffusione della sua coltivazione, secondo la tradizione, fu favorita da Matilde di Canossa e raggiunge molte zone del nostro appennino.

Dal castagno si ricavavano, oltre al cibo, anche legname da costruzione e venivano utilizzate persino le foglie per lettiera degli animali. Si conoscono le tecniche di coltivazione, le varietà e i metodi di innesto. La presenza dei seccatoi o metati è più controversa e incerta; la prima citazione di un metato, l’ho trovata negli Annali Bolognesi, stampati a Bassano nel 1789, nei quali si riporta un documento del 22 aprile del 948, conservato nell’archivio della cattedrale di Parma, in cui si concedono a livello alcuni beni posti oltre il fiume Reno, tra cui “una petiola vineata cum metato et orto et kanalis”; non essendoci, tra gli altri beni allivellati, castagni o castagneti di sorta, è evidente che il metato non avesse la funzione di seccatoio, ma fosse un bene a servizio della vigna.
La parola metato deriva dal latino “metari”, che significa “essere misurato”; Orazio Flacco, in una delle sue satire, menziona un “metato in agello”, che si può tradurre come “poderetto che è stato misurato”, riferendosi alle misurazioni dei terreni concessi ai soldati veterani. Lo Zagnoni nel suo saggio (1) eseguito consultando le carte di cinque enti ecclesiastici con beni sulla Montagna Pistoiese, rileva due edifici a cui attribuisce la funzione di seccatoi. Il primo è un documento del 1235 in cui, in un estimo di quell’anno, un uomo dichiara di possedere “unum medatum situm in villa Bargi”; il secondo, del 1236, è la denuncia di Pietro di Vigo nei confronti di emissari dei conti Alberti di Bruscoli che dopo aver occupato “fortilitiam et roccham Vighi”, entrano in un suo “medalem” al fine di incendiarlo. Nella zona di Stiava Massarosa, in un contratto di affitto di una proprietà, rogato nel 1276, viene citato “uno metato”, e nelle condizioni di pagamento c’è anche la corresponsione di otto staia di castagne secche, ed è quindi plausibile che avesse funzione di seccatoio.

Nei documenti succitati non c’è nessuna descrizione del fabbricato o dell’utilizzo del seccatoio. Qualcosa ci dice Pier de Crescenzi, uno dei massimi scrittori di agricoltura del trecento, che nel suo “Liber ruralium commodorum” parla, per l’essiccazione delle castagne, di “graticcio” senza indicare dove fosse fisicamente posto. Anche nell’Erbario Novo di Castore Durante, edito nel 1585, si parla, anche se sommariamente, dei graticci: ”nelle montagne dove si raccoglie poco grano, si seccano le castagne su grate al fumo e poi si mondano e se ne fa farina che valentemente supplisce per farne pane”. Penso che fosse molto difficile che i contadini della nostra montagna, che vivevano in abitazioni miserevoli, possedessero o usassero degli edifici appositi per tale pratica, edifici che per ovvie ragioni avrebbero dovuto essere costruiti in pietra o altro materiale adeguato.
È probabile comunque che alcuni seccatoi esistessero, a servizio di proprietari ricchi o enti ecclesiastici, anche se nella maggior parte dei casi, l’essiccazione delle castagne, avveniva direttamente in casa. In una indagine che abbiamo eseguito sulla parrocchia di Cornacchiaia, consultando le portate del Catasto del 1427, abbiamo notato che, pur essendoci 29 proprietari (su 38) che possedevano appezzamenti di castagneto, non viene denunciato alcun seccatoio.

Dato che è indubbio che producessero castagne secche, è evidente che l’unico luogo in cui veniva eseguita questa pratica, era la casa di abitazione. Non si può ipotizzare che questi ambienti non venissero dichiarati, perché insignificanti dal punto di vista costruttivo, in quanto nelle dichiarazioni si trovano anche ruderi o capanne col tetto di paglia. La casa di montagna nella zona dell’Alpe Fiorentina, perlomeno fino al XVIII secolo, non doveva discostarsi molto dall’abitazione contadina medievale. Era generalmente formata da un solo ambiente in cui viveva tutta la famiglia; le costruzioni essendo prive di fondamenta erano mono piano. Il focolare era al centro della stanza, senza alcuna canna fumaria, per cui il fumo usciva da apposite feritoie sul tetto. Al tempo della essiccazione veniva montato un graticcio di legno, sul quale si stendevano le castagne; in alcuni casi il graticcio era fisso e veniva adibito anche ad altri usi (per deposito o anche per dormire). Immaginiamoci i disagi che queste persone dovevano subire a causa degli ambienti angusti in cui abitavano, spesso insieme agli animali domestici, e anche all’insalubrità dell’aria che respiravano.

Bisognerà attendere il XVIII secolo per vedere mutare questa situazione, quando le case contadine cominciano a diventare più confortevoli: man mano che l’abitazione comincia ad essere costituita da più locali e dotata da camini a parete, provvisti di canna fumaria, l’uso del graticcio diventa più difficoltoso e i seccatoi vengono costruiti in maniera più efficiente e moderna, utilizzando la pietra come materiale da costruzione e posizionandoli all’esterno dell’abitazione. Lo stimolo venne dalle riforme agricole granducali, volte a migliorare le condizioni di vita dei contadini, ma anche dalla concessione del quarto di spesa (il rimborso del 25 per 100 sulle somme investite per la costruzione di edifici rurali), e dal permesso di utilizzare i materiali di vecchie torri, fortilizi e mura. Le vecchie abitazioni contadine cominciarono ad adeguarsi alle esigenze del colono, con l’aggiunta di stanze e pertinenze anche se le case a più piani sono rare fino all’ottocento. Nel corso del XVIII secolo l’architettura rurale verrà codificata, ad opera del trattato del Morozzi (2) in cui vengono indicate le linee guida per la costruzione degli edifici di campagna. Queste indicazioni restano comunque spesso teoriche: il miglioramento delle abitazioni avrebbe richiesto investimenti consistenti che i piccoli proprietari non si potevano permettere mentre i grandi erano mal disposti ad affrontare spese spesso maggiori di gran lunga del valore del podere.
Nell’opera del Morozzi si ha finalmente una descrizione dettagliata del seccatoio, con informazioni precise su quella che avrebbe dovuto essere la forma e la funzione di questo edificio: “(La superficie) deve essere piuttosto piccola, che grande, e deve avere davanti una stanzetta, dove si mettono le legne a finir di prosciugarsi per uso del medesimo, e da detta stanza si deve entrare nel seccatoio, mediante una bassa apertura, o porticciola, non più alta di un braccio e mezzo, acciò il caldo non possa per quella sortire, e ne esca il fumo, perchè non ci va fatto cammino, e serve detta porta per custodire il fuoco, che di continuo vi si mantiene nel mezzo di esso in piana terra acceso.

All’altezza di due braccia e 1/2 da terra, vi si fa un palco fittizio con legni tondi, e rozzi posati, su la risegna del muro, qual legname si dispone fisso e unito, e sopra si carica le castagne, che devono seccarsi per il calore del fuoco; ad una certa altezza di braccia, o 2. 1/2 sopra al palco descritto, si lascia nel muro, che corrisponde in casa una buca tanto larga, che vi possa passare un uomo, il quale di tempo in tempo entra dentro al seccatoio a voltare le castagne, sollevare quelle di fondo, e mandar sotto quelle di sopra, acciò tutte si asciughino perfettamente. Si copre poi questa stanza unitamente con l’altra delle legne con tetto, e si fa alta più, o meno, secondo che torna bene all’architetto, e meglio sarà sempre, e buona regola, difendere il tetto con una volta, perchè son facili ad inendiarsi, e perciò nell’atto che seccano le castagne, nè giorno, nè notte mancano di farvi la guardia.

Questi seccatoi per lo più sogliono farsi in campagna ne’ boschi ove si raccolgono le castagne, ma se la ricolta è piccola si può fare allora in casa.” La descrizione è logicamente una descrizione ideale, si troveranno infatti numerose varianti determinate dai luoghi, dalle circostanze e dai materiali a disposizione, e in molti casi si continuerà con l’essiccazione casalinga. Di seccatoi settecenteschi residui, nel nostro territorio, ne abbiamo reperiti solo tre: uno a Montecchio, datato 1726, uno al Corniolo datato 1789 e uno al Pianaccio presso Tirli, annesso ad un edificio di quell’epoca, e che utilizza, per porta d’ingresso, un portale quattrocentesco proveniente da un edificio più antico della zona. Tornando alla nostra indagine sulla parrocchia di Cornacchiaia abbiamo detto che nel 1427 non è dichiarato nessun seccatoio; nell’estimo del 1718 ne sono dichiarati 3, per cui, essendo quella una zona ricca di castagneti, si presume che l’essiccazione si continui ad eseguire in casa.
Nel 1832 son già venti con una popolazione aumentata, ma non eccessivamente: 282 abitanti nel 1745 e 382 nel 1833. Tra 800 e 900 il numero dei seccatoi sale vertiginosamente, in quanto le migliorate condizioni economico sociali fanno sì che l’essiccazione non avvenga più nelle abitazioni, ma in fabbricati adatti. In una ricerca svolta a Firenzuola nel 2017, ne sono stati censiti oltre 400, dei quali una decina ancora funzionanti e molti ridotti a rudere o destinati ad altro uso.
(1) Renzo Zagnoni LA COLTIVAZIONE DEL CASTAGNO NELLA MONTAGNA FRA BOLOGNA E PISTOIA NEI SECOLI XI-XIII
(2) Ferdinando Morozzi DELLE CASE DEI CONTADINI Le immagini sono tratte dalla mostra “Le casine fumanti” – Firenzuola 12017
Sergio Moncelli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 12 novembre 2023
1 commento
Bravo Sergio.
Sempre documentatissimo e piacevole da leggere.