Antonio Bacci, tra sacro e poetico
MUGELLO – Antonio Bacci nasce il 4 settembre 1885 a Giugnola. Entrato giovanissimo in seminario, viene ordinato sacerdote nel 1909. Lo ricordiamo tra i fondatori della Cassa rurale di prestiti e di risparmio di Piancaldoli costituita il 6 novembre 1910. La Cassa, inizialmente affiancata a causa dell’esiguo numero di soci a uno spaccio cooperativo di prodotti agricoli, confluì poi, nel 1972, nella Banca del Mugello. In virtù della sua profonda conoscenza della lingua latina, nel 1909, su istanza dell’Arcivescovo Mistrangelo fu nominato prima professore poi vicerettore e infine rettore del seminario di Firenzuola, dove vi rimase fino al 1921 quando fu inviato a Roma presso la Segreteria di Stato vaticana. Cardinale dal 1960, morì a Roma il 20 gennaio 1971 al termine di una vita di studio, consacrata alla difesa del latino come esclusiva lingua liturgica a dispetto dell’esito del Concilio Vaticano II.
Che il Bacci si sia impegnato pure in alcune prove poetiche è aspetto poco conosciuto ai più eppure fu scelto come primo autore di una nuova collana inaugurata dalla casa editrice Ars Italica con l’intento di promuovere e sostenere la pubblicazione di autori, non ancora noti al grande pubblico, e di “incoraggiare vocazioni, svelare temperamenti giovanili”. Nel 1915 vide così la luce la sua prima e unica raccolta poetica intitolata “Oasi rime e ritmi giovanili” da cui emerge in prima battuta la sua anima di poeta naturalista – potremmo dire di poeta di paese e di campagna – che, pervasa da una profonda religiosità, si manifesta all’interno dei componimenti più riusciti: “La sua anima coglie le tenui armonie or palesi or occulte correnti tra la terra e il cielo, i segreti rapporti delle cose, l’anima delle umili realtà, la bellezza delle piccole scene: la vita degli esseri, gli si rivela, così intera, piena di alta religiosa meraviglia”.
È dunque essenzialmente un poeta di montagna, un poeta contadino che sa tradurre in versi le istanze della vita di tutti i giorni, conferendo loro un forte senso di religiosità. In grado di cogliere i piccoli segni della natura, sa trarre gioia e meraviglia anche dall’osservazione della vita di una piccola creatura, si pensi in tal senso a Lo scarabeo o Il grillo e l’automobile. L’andamento dei componimenti, fresco e leggero, risulta tuttavia meno efficace nella caratterizzazione dei personaggi nella misura in cui propone talvolta descrizioni eccessivamente ornamentali a discapito dello scavo interiore e dell’introspezione psicologica; anche nelle poesie storiche o rievocative di grandi fatti risulta poco convincente, “ma quando il Bacci si abbandona alle proprie care visioni, e ne riceve subiti vivi sentimenti e li traduce senz’altro in motivi di immediata poesia, vorrei dire microcosmica, allora egli è un vero poeta”. Quella del Bacci è una poesia che alterna luci ed ombre, da cui a tratti emergono incertezze tipiche delle prime prove poetiche. Eppure non dubitiamo del fatto che questo talento in nuce se fosse stato incoraggiato e coltivato avrebbe portato senza dubbio a più alti risultati. Anche la rivista “La Civiltà Cattolica” in un articolo a lui dedicato, pur ammettendo alcuni limiti da superare, lo incoraggia a proseguire su questa strada come del resto fa il suo conterraneo don Stefano Casini che al termine del capitolo conclusivo del suo Dizionario di Firenzuola accenna all’opera del Bacci e lo esorta “a non fermarsi, per onore a questa prima raccolta di poesie, ma a continuare ed a perfezionarsi camminando avanti per la grande via dell’arte”. Abbiamo ragione di credere però che il Bacci non si sia più dedicato alla composizione poetica dato che, sulla base dei documenti che ci sono pervenuti, non risulta abbia pubblicato altre raccolte in lingua italiana. Un autore del nostro territorio, sensibile e delicato, che certamente meriterebbe uno studio più attento e accurato.
LA BATTITURA DEI CASTAGNI
(Gioia autunnale)
Son qui sul muschio soffice,
beato; lungi perdesi con dolci
richiami il canto delle coglitrici
fra il frettoloso sbatter delle pertiche.
Qui intorno un popolo d’insetti corre,
fra tenui borborigmi,
e via s’affretta all’ultime bisogne,
che già cala l’inverno.
Ora l’autunno spande ovunque nel lento
desio di pace. Ancor tiepido è il sole,
ma qualche foglia, barellando, atterra
cade: nel ciel son estasi di luce,
son palpiti d’amore;
ma par l’estasi pia che splende in volto
al vecchio stanco nella prece assorto:
ancor la terra ha un riso blando e mite
al dolce canto delle coglitrici,
ma sembra il riso d’una madre inferma.
Son qui, sul muschio soffice, beato.
Qui presso lieta croccola una fonte,
e sembra il lieto rider d’una sposa;
mentre sovra di me lento un castagno
paternamente estende le sue rame.
– Oh belle, fra gli aperti ispidi labbri
dei ricci biondi, le castagne baie!
Quante bocche ridenti
Sgranarsi fra il fogliame giallo, mentre
Cade qua e là, nel riso, il dolce frutto.
– O pio castano, io mi credeva un giorno
Che si nascesse nel tuo tronco bugio
come le brune Driadi;
e quando bimbo ignaro qui venivo
dentro cercavo al cortice del cavo
tronco, cogli occhi, un angioletto biondo;
pia favola per cui sempre ti ho amato
si come un vecchio nonno.
Nonno castagno, e tu serbi nell’ultima
stagione ai tuoi nepoti
negli aspri scrigni de’ tuoi ricci impervi,
come nel chiuso pugno, il dolce frutto;
il dolce frutto, per cui poi gioisce
la famigliola intorno al focolare:
– fuori stride l’inverno,
turbina un urlo rauco di minaccia
giù per le nere spire del camino;
ma sul ciocco borbotta la caldaia
con le brune castagne;
la nonna fila e conta le sue fole…
il bimbo ascolta pensieroso e guarda,
con gli occhi intenti, il ciocco e la caldaia. –
QUEL CHE PENSA LA NONNA…
La nonna, rugumando il suo garzòlo
con la sua vecchia bocca,
porta il tremulo fuso all’alta rocca
incappucciata dalla pergamina;
e prilla e prilla e prilla
con le sue grinze mani ossute e stanche.
Dintorno ha dei nipoti la nidiata,
– mésse nuove crescenti al vecchio ceppo –
e conta la sua fola
soffermandosi un poco all’agugliata.
Vedon gli occhietti, scintillando intenti,
draghi di fuoco e fulgide donzelle,
sotto i riccioli pensa ogni testina
un mondo arcano d’angioli e di fate.
La nonna conta la sua lenta fola,
e traendosi il fuso all’alta rocca,
pensa un tesoro di bianchi lenzuoli
odoranti di spigo e di cotogne.
LA FARFALLA AZZURRA
– O farfalla d’azzurro, dimmi in quale
Luogo prendesti quel tuo bel colore
onde tu porti così pinte l’ale? –
Ed ella mi rispose:
– Porta l’impronta il mio volante frale
dei fiori ond’io mi nutro.
Son la molle pervinca e il fragil lino
che m’offrono le coppe di zaffiro,
e poi quel fiorellino,
che chiamate – non ti scordar di me –
e che si specchia all’onda
d’uno stagno o d’un limpido acquitrino.
Come questa farfalla
l’anima nostra brilla e si colora.
se viva è la sorgente che l’irrora.
L’EROE
Fiocca in ridda la neve i suoi misteri
bianchi, tessendo enigmi ad ogni ramo,
nel cinereo silenzio sepolcrale.
I casolari grigi, ammantellati
fumano intorno alla vetusta chiesa
come una breve scorta funeraria.
Or sotto i suoi lenzuoli verginali
dorme la terra raggricciata e sogna;
sogna la dolce primavera, quando
avrà l’ebbrezza pia che crea il fiore.
Bruna fata discende ora la sera,
e la campana fa la sua preghiera.
Il buon curato sale l’erto monte
a un casolare povero, sepolto,
ove una madre, disseccato il pianto,
stringe al vedovo seno moribondo
un figlioletto. È freddo il focolare.
Piange l’Addolorata a capo al letto
ascoltando il vagito ed il singulto.
Risponde fioca, querula, lontana
or sì or no, morendo, la campana.
Il buon curato sale l’erto monte
nevoso, discosceso, solitario,
tormentato dai turbini e dal gelo.
Egli ha vinto la belva che bramisce
in noi cieca, codarda, trucolenta;
un angiol s’affaccia pe’ suoi occhi.
La sua mano non sa che benedire;
le sue labbra non sanno che pregare;
ha un arcano tesoro entro il suo cuore,
che può render soave anche il dolore.
Il buon curato sale l’erto monte,
e tremano per lui dal ciel le stelle,
pie guardando fra le aperte nubi.
Oh quante volte per le sibilanti
balze nevose ei cade affranto! Il sangue
l’orme fiorisce di vermigli fiori.
Lo flagella la ridda aquilonare
col suo nevischio eterno lancinante;
ancor ei sale, sale dolorante…
E il buon curato è giunto all’erto monte.
Al casolare povero, sepolto
ora è cessato il pianto ed il vagito.
Risplende, come un occhio che sorride,
la finestròla. Cessa la tormenta.
Su quel candore immenso, desolato
prega, tremando, il cielo stellato.
IL GRILLO E L’AUTOMOBILE
Cri, cri… Sul ciglio erboso della via,
del suo fresco cenobio in sulla porta
il fraticello grillo alza al Signore
la sua timida prece, con tremore.
Or è una gioia ed un tintinno argenteo
di perle piccoline,
or è un ricamo querulo interrotto,
or è un tenue cri, cri pieno d’amore,
or è come un vagito che si muore…
Canta a suo modo il fraticello bruno
le lodi del Signore,
che ha creato le stelle su nel cielo
e sulla terra i variopinti fiori;
che nella notte piove ad ogni stelo
assetato una perla di rugiada,
e la mattina l’incorona poi
con la sua luce tremula iridata;
che ha dato alle ranelle gracidanti
li sguazzi e li acquitrini
e ai grani , nella notte, i titillanti
ricami azzurri d’astri piccolini;
che ha dato a lui quel canto e quel convento,
dove vive così, solo e contento.
Cri, cri…Sul ciglio erboso della vita,
del suo fresco cenobio in sulla porta
il fraticello grillo alza al Signore
la sua timida prece, con tremore.
Ascoltando la tenue melodia
da una zolla fiorita
guarda una variopinta famigliuola
e manda olezzi al fragile cantore;
ed una margherita
estasiata reclina la corona.
Cri, cri… Silenzio! – un rombo, un anfanare
s’approssima ronfando e divorando
lo spazio polveroso:
come belva che pute di salvatico,
come un rauco ululare
l’automobile passa starnazzando,
e fugge pazza di velocità…
Silenzio. Or più non s’ode il pio cantore.
Violato di polve ora ogni fiore
attende con la fronte reclinata
la pace della notte e la rugiada.
Sergio Moncelli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 7 maggio 2018