MUGELLO – “Levati di lì, che ci vo’ star io”. Il socialista riformista Filippo Turati nella dura requisitoria contro i fascisti pronunciata nell’aula della Camera dei Deputati il 17 novembre 1922 citò queste parole, attribuite a un “poeta del Mugello”, per argomentare che la vittoriosa marcia su Roma, che da pochi giorni aveva portato al governo Mussolini, non era stata un’autentica rivoluzione ma solo un colpo di mano per la presa del potere (si sbagliava, ahimè, sappiamo invece che fu il simbolo della fine del regime liberale e la negazione delle libertà per più di un ventennio). “Chi è il poeta in questione?”, si domanda Riccardo Nencini nel suo recente articolo “Il Mugello in bocca al Duce”. Bisogna levarsi la curiosità: era il rontese Filippo Pananti, che con il consueto sarcasmo aveva scritto:
E donde nascon le rivoluzioni?
Dai lumi dei filosofi? Dal peso
dell’ingiustizia, delle imposizioni?
So che questo si dice, anch’io l’ho inteso.
Ma tutto si riduce, al parer mio,
al dire: esci di lì, ci vo’ star io.
Il celebre epigrammista non era stato sempre viscerale qualunquista, perlomeno fino al giugno del 1799, quando scappò in Francia per timore di rappresaglie dei nemici reazionari (da lì poi emigrò nel 1803 a Londra, dove rimase per un decennio). Fino alla morte di Robespierre aveva parteggiato per i sanguinari giacobini che avevano mozzato le teste a mezza Francia e poi si era barcamenato nelle tempestose vicende della Toscana dichiarando di non volersi impicciare di politica. Disse che conosceva la rivoluzione (“l’ho vista nascere e crescere”) per cui sapeva che i rivoluzionari “son costretti a far cose necessariamente violente” attirandosi l’odio del popolo. “Il miglior partito è non prenderne alcuno”, scriveva al fratello Luigi nel novembre-dicembre 1796. Ma a quanto pare non mantenne il proposito perché nella primavera del 1799 fu autore di quattro infiammanti discorsi, pubblicati a spese della Società patriottica fiorentina, in cui denunziava gli attentati alla libertà di stampa e il fanatismo dei preti. Si propose addirittura come mediatore per ravvedere gli insorti controrivoluzionari che marciavano da Arezzo al grido di “Viva Maria!”. Lui e l’amico Giuseppe Baldini furono ben lieti inoltre di accettare l’invito dei patrioti di Borgo San Lorenzo (intenti a rizzare l’albero della libertà nella piazza del Podestà il primo maggio 1799) a certificare la piena adesione alla Repubblica francese e la lealtà ai suoi rappresentanti. Carta canta, caro Filippo. Ecco la lettera rimasta nell’Archivio storico del paese natale:
Peccato che di questi convincimenti (o di qualche pentimento) non vi sia traccia nelle opere del Pananti. Ammiro la sua verve letteraria ma devo ammettere che il personaggio aveva un’indole incostante e una buona dose di opportunismo. Sentite con quanto inconfessato candore ha rimosso i suoi giovanili errori:
Chiamami ciuco, spia, ladro, assassino,
ma solo non mi dar del giacobino.
Tutte un tal nome l’opre scellerate
Contiene: basta dir che vuol dir Frate.
[i parigini chiamavano “giacobini” i frati domenicani del convento di San Giacomo, divenuto sede dell’ala più estremista dei repubblicani]
La sua lettera ai patrioti borghigiani termina infatti augurando salute e “fraternità”. Non c’è dubbio che la dote della coerenza il buon rontese la mantenne soprattutto coltivando l’insopprimibile vena anticlericale (oltre l’amore per il gentil sesso).
Adriano Gasparrini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 25 Gennaio 2020