Giacimenti di gas e petrolio nelle profondità del nostro Appennino: storia ed origine
MUGELLO – In un nostro precedente articolo abbiamo visto come i famosi “fuochi di Pietramala” fossero originati dal gas metano che usciva spontaneamente dalle crepe del terreno, che si incendiava poi a causa delle scariche elettriche temporalesche (articolo qui). Ad Alessandro Volta si deve la scoperta delle cause di questo fenomeno (1780), da lui individuato nella venuta di gas dalle profondità del terreno.
Quando ci si rese conto che il gas poteva essere economicamente sfruttabile, e soprattutto che era associato alla presenza di petrolio greggio, si cominciarono a trivellare pozzi per la sua estrazione. Nella nostra zona ciò è avvenuto particolarmente nei dintorni di Pietramala (Comune di Firenzuola-FI) e presso Castel dell’Alpi (BO) ma anche in molte altre parti dell’Appennino Settentrionale si sono scoperti giacimenti di gas e petrolio, anche se normalmente sempre piuttosto limitati. Oggi l’estrazione di idrocarburi da questi numerosi piccoli giacimenti è praticamente abbandonata sia per l’esiguità delle riserve (non conveniente dal punto di vista economico) sia per l’esaurimento delle riserve stesse.
Qui vale la pena ricordare che fra i giacimenti di gas sono ancora attivi, oltre ovviamente a quelli di Pietramala, quelli di Barigazzo e Trignano (MO), Gaggio Montano, Lizzano in Belvedere e Porretta terme (BO), e altri ancora più piccoli, utilizzati per usi locali di autotrazione, o per reti di distribuzione per usi domestici ed industriali (Barigazzo, Porretta Terme e Lizzano in Belvedere). Per quanto riguarda i famosi fuochi, scomparsi ormai quelli di Pietramala, Barigazzo e Sassatella (MO), l’unico fuoco perenne si osserva oggi a Querciolano (il cosiddetto “vulcano”), presso Portico di Romagna, nella valle del Torrente Montone, in provincia di Forlì.
Ma a questo punto la nostra curiosità potrebbe spingersi oltre: qual è l’origine del gas? Dove sono ubicati i suoi giacimenti? E il petrolio che, seppur in piccole quantità, è sempre stato rinvenuto associato al gas nei pozzi del nostro Appennino? Prima di affrontare l’argomento, è bene fornire alcune notizie di carattere scientifico, cercando di renderlo comprensibile a tutti.
Il petrolio che si trova nel sottosuolo è costituito da una miscela di numerosissime componenti, fra cui predominano nettamente gli idrocarburi; questi sono composti chimici costituiti esclusivamente da atomi di carbonio C e atomi di ossigeno (O). In base alla proporzione fra questi due atomi e alla loro struttura molecolare, gli idrocarburi vengono classificati in diverse serie, tra cui citiamo le paraffine, le cicloparaffine, gli alcheni e gli aromatici. Alle paraffine appartiene il metano, che è il più semplice degli idrocarburi, composto da un atomo di carbonio e 4 di idrogeno (CH4). Possiamo immaginare il metano come un mattone. Gli altri idrocarburi sono costituiti dall’insieme di due o più di questi mattoni; ad esempio le paraffine etano (C2H6), propano (C3H8) e butano (C4H10) (queste ultime due costituiscono quello che commercialmente viene chiamato GPL o gas di petrolio liquefatto) sono praticamente dei multipli del metano. Fra le cicloparaffine, che sono praticamente paraffine chiuse ad anello, ricordiamo il pentano (C5H10). Fra gli aromatici, così chiamati per il loro odore, il più famoso è il benzene (C6H6), cancerogeno e presente nelle benzine verdi come antidetonante. Aumentando il numero di atoni di C ed H aumenta il peso delle molecole di idrocarburi e quindi la sua capacità di fornire calore bruciando.
Il petrolio si origina da rocce che contengono sostanze organiche come lipidi, proteine e carboidrati (di origine animale) e lignine e tannini (di origine vegetale). Questa sostanza organica deriva principalmente da organismi unicellulari, come diatomee e nannoplancton, che vivono nell’ambiente di sedimentazione acquatico, in genere marino, di queste rocce; alla loro morte una parte di essi va a fare parte del sedimento che originerà la roccia; le rocce da cui si forma il petrolio sono chiamate “rocce madri” ed in genere sono rocce argillose, poiché l’argilla, impermeabile, è capace di isolare la sostanza organica dall’ossigeno impedendone la putrefazione, cioè in sostanza la sua trasformazione in anidride carbonica (CO2). Per produrre petrolio le rocce madri devono poi venirsi a trovare a profondità del sottosuolo dell’ordine di qualche chilometro (2-3000 bar di pressione) a temperature comprese fra i 60° e 120°. Ciò accade solitamente per fenomeni di subsidenza e nel nostro caso anche per i movimenti che portano alla formazione delle montagne, cioè al sollevamento dei sedimenti e delle rocce. Quando si perforano i pozzi si vede però che il petrolio è contenuto nei giacimenti all’interno di rocce porose e soprattutto permeabili, come ad esempio arenarie o calcari fratturati, sabbie e conglomerati. Queste rocce sono conosciute come “rocce serbatoio” e costituiscono il giacimento. Il petrolio non si è originato in esso, ma vi è migrato dalle rocce madri, tramite meccanismi non del tutto conosciuti ancora oggi.
Nell’Alto Appennino Tosco-Emiliano, in particolare nella zona compresa fra l’alta valle del Santerno e quella del torrente Savena, sono stati scoperti numerosi giacimenti di petrolio e gas metano all’interno di quella coltre di terreni argillosi comunemente conosciuti come Complesso Caotico o Complesso delle Argille Scagliose. Ho riportato qui una sezione geologica (una sezione geologica è una ricostruzione del sottosuolo, come se si potesse tagliare il terreno a fette e vedere la sua struttura in profondità) dove viene evidenziata la struttura geologica della catena appenninica dalla Valle del Santerno fio ad oltre la Valle del Setta, passando attraverso Monte Oggioli (Firenzuola FI). I terreni caotici sono prevalentemente argillosi, come dimostrano i paesaggi brulli e franosi tipici delle loro aree di affioramento, ma al loro interno si possono trovare inclusi di grosse dimensioni, anche fino al chilometro cubo (ad esempio Monte Canda e Monte Beni), di rocce ofiolitiche, rocce calcaree fratturate e rocce arenaceo-sabbiose, che spesso risultano sede di giacimenti di gas e petrolio. Le argille dei terreni caotici assicurano a questi piccoli giacimenti (prevalentemente in calcari fratturati) l’impermeabilità. Quando però il giacimento è vicino alla superficie, il gas può riuscire a fuggire attraverso crepe o fratture del terreno: ecco così spiegata l’origine dei “fuochi”. Giacimenti di idrocarburi sono stati rinvenuti anche all’interno della formazione rocciosa Marnoso-Arenacea (la “Pietra Serena” firenzuolina è un tipo di roccia che si trova all’interno di questa formazione rocciosa, quando le sue rocce hanno determinate caratteristiche costanti e indisturbate e sono così sfruttate come pietra ornamentale).
Resta un problema stabilire quale roccia madre abbia originato il petrolio e quindi il gas. E’ però certo che dove c’è il petrolio ci sono sempre le Argille Scagliose. Esse fungono da roccia impermeabilizzante per i giacimenti, ma probabilmente una parte di queste è anche responsabile della formazione del petrolio stesso, probabilmente le argille con più contenuto organico perché formatesi nel fondo dei mari in circostanze molto favorevoli alla vita dei microorganismi che sono poi all’origine del petrolio.
Studi effettuati soprattutto alla fine degli anni 80 sulla composizione degli idrocarburi di Pietramala e di Castel dell’Alpi hanno dimostrato che il gas di questi giacimenti ha un origine “termogenica”, cioè si tratta di gas originato da petrolio sottoposto ad elevate pressioni e temperature (il motivo in dettaglio per cui venivano a trovarsi in queste condizioni lo vedremo al limite in un ulteriore articolo specifico, comunque è legato alla dinamica della formazione delle catene montuose). In questi casi si ha infatti la scissione delle molecole di idrocarburi più pesanti, e il petrolio liquido si trasforma via via in prodotti più leggeri; se il processo continua per un tempo sufficiente (si tratta comunque di tempi lunghi, geologici diremmo, ed è il motivo per cui il petrolio è comunque destinato ad esaurirsi, anche se non in tempi così brevi come si era pensato in vari studi degli anni passati, tutti o quasi puntualmente disattesi, ma forse chi li eseguiva forse aveva direttive di carattere economico da parte delle compagnie che le commissionavano, ma non è argomento nostro…) si arriva alla produzione di metano puro o quasi, senza ulteriori evoluzioni poiché la molecola di CH4 è la più semplice e leggera degli idrocarburi e non viene scissa ulteriormente. Questo processo, conosciuto col nome di “cracking termico”, è simile a quello che vien riprodotto, in modo ovviamente artificiale, nelle torri petrolifere di raffinazione del petrolio greggio (“piroscissione”, cioè, semplificando, mediante il riscaldamento artificiale del greggio).
Si è constatato inoltre che il nostro gas contiene idrocarburi più pesanti, non è cioè puro metano, come ad esempio etano, propano, butano e pentano, che ne testimoniano l’origine dal petrolio liquido. La presenza di idrocarburi pesanti poteva essere tradita (non ai giorni nostri, comunque) dall’odore dei gas di combustione delle autovetture che sfruttano il metano della zona: infatti il metano quando brucia produce solamente acqua e anidride carbonica se è perfettamente puro, entrambi perfettamente inodori (per fare in modo che venga scoperta una eventuale fuga soprattutto in ambienti domestici, questo viene “profumato” artificialmente). Ricordo che negli anni 70 e 80 gli utenti del gas metano per autotrazione a Pietramala constatavano che col pieno di gas pietramalino il motore aveva prestazioni superiori e si faceva anche qualche chilometro in più. Questo era dovuto proprio alla presenza di questi idrocarburi più pesanti. La parte più cospicua di essi veniva comunque separata dal metano e formava una sostanza trasparente, una sorta di benzina, incolore, non inodore, che fu denominata poi “Sinalina” (dall’acronimo SIN, Società Nazionale Idrocarburi), che venne commercializzata per un periodo come smacchiatore (tipo benzina “Avio”). Ricordo che mio babbo, che era (e tutto sommato lo è tuttora, ad 87 anni suonati) il fabbro del paese, utilizzava questa sostanza per tenere a bagno i pennelli della vernice; era ideale per mantenerli puliti e morbidi, io stesso la utilizzavo poiché le verniciature erano fra i miei lavori estivi.
Va poi qui sottolineato che nel 1904 un sacerdote toscano studioso di scienze, Don Piero Marrani, si recò in visita ai fuochi di Pietramala e quattro anni più tardi studiò la composizione chimica dei gas che li generavano, con strumenti peraltro molto semplici, accertando già allora la presenza di idrocarburi quali etano, propano, butano e pentano (oltre ovviamente il predominante metano); il sacerdote non fu in grado misurare le quantità relative, visto i mezzi allora utilizzati, ma intuì che il metano fosse il gas predominante mentre gli altri idrocarburi dovevano essere presenti in quantità minime.
Gli ultimi e relativamente più recenti studi degli anni 90 avevano confermato in pieno queste osservazioni. In definitiva, gli studi sulle componenti del gas (ed in parte anche sull’olio, o petrolio) hanno dimostrato prima di tutto la perfetta correlazione esistente con i restanti gas dell’Appennino Bolognese, Modenese e Permense, confermando l’ipotesi di un unico bacino gassifero appenninico, pur se frammentato, soprattutto a causa deli intensi movimenti tettonici che hanno portato alla formazione della catena montuosa appenninica. Inoltre gli idrocarburi di questa parte dell’Appennino devono aver subito lunghi processi migrativi, probabilmente attraverso fratture o/o rocce porose, anche perché i giacimenti si trovano attualmente a profondità modeste, dell’ordine delle poche centinaia di metri, mentre è dimostrato che un gas con le caratteristiche di quello rinvenuto nei nostri pozzi piò essersi formato solo a profondità dell’ordine di qualche chilometro. Il sollevamento delle formazioni rocciose che hanno portato alla formazione dell’appennino e la conseguente e simultanea erosione hanno portato alle condizioni che vediamo “fotografate” oggi.
Nei piccoli giacimenti di Pietramala, ed anche di Castel dell’Alpi, è dunque racchiuso l’affascinante e maestoso processo che ha portato alla formazione della nostra catena montuosa. La presenza di giacimenti a bassa profondità è in parte senz’altro dovuta al sollevamento degli Appennini, che continua ancora oggi a velocità variabili, ma comunque mediamente nell’ordine di 1 cm/anno (dati rilevati da misure geodetiche satellitari; in un milione di anni, tempo geologicamente, vi assicuro, breve, fanno 10 km…) mentre i corpi calcarei e arenaceo-sabbiosi che fungono da serbatoi mostrano lo smembramento che le formazioni rocciose hanno subito durante traslazioni orizzontali dell’ordine di decine di chilometri. Le fratture lungo cui il petrolio è risalito sono legate ai medesimi fenomeni…..quanti segreti erano celati in quei soffi di gas infuocato, che illuminavano sinistramente i cieli bui delle nostre montagne….
Francesco Tonini
©Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – ottobre 2022
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