MARRADI – Sabato pomeriggio a Barberino nella Biblioteca Comunale all’interno dell’iniziativa “Gener-azioni” Walter Scarpi presenta uno dei romanzi che ha pubblicato, quello d’esordio. In questa intervista lo scrittore marradese si racconta e parla della propria vocazione di narratore.
Walter, come ci si innamora della parola e della scrittura? Mio nonno era uno degli ultimi fulesta: narratori delle campagne che allietavano le serate di veglia raccontando storie, favole, fatti di cronaca. C’erano dei personaggi favolosi, tipo Mezzanotte, un contadino così bravo a incantare l’uditorio che con lui la veglia si trascinava fino a mezzanotte, un orario impensabile per chi doveva alzarsi alle 4 per nutrire gli animali della fattoria. Mio nonno per esempio era specializzato in film. Non tutti potevano andare al cinema. Lui risparmiava per poterselo permettere, e poi, se glielo chiedevi magari incontrandolo per caso il lunedì di mercato, veniva a casa a raccontarti i film che aveva visto. “Sembrava di essere lì” dice mia mamma. Anche lei era brava a raccontare le favole. Il primo libro della mia vita devo averlo visto fra le sue mani mentre mi leggeva le favole della buonanotte. Le leggeva così com’erano, perché il testo è sacro e va rispettato, poi però ci metteva del suo. Per esempio: “Cappuccetto Rosso, cammina cammina, entra nel bosco. Lalla lá, lalla là.” I fratelli Grimm non lo avevamo scritto, sbagliando. Perché se non ci metti il Lalla lá uno può anche pensare che Cappuccetto Rosso non avesse tutta questa voglia di entrare nel bosco.
Provi a raccontarti in questo tuo itinerario di vita? Prima facevi ottime birre artigianali, ora ti cimenti con i libri… La scrittura è per me una vocazione. In paese sono sempre stato considerato uno scrittore (anche se il termine mi suona pretenzioso) fin da quando i miei temi venivano letti a scuola. Era successo che avevo scoperto per caso nella biblioteca scolastica un libro di Luca Goldoni, un giornalista. Andai dal mio professore di italiano, Don Nuvoli, chiedendogli: ma si può scrivere anche così?
Certo che si può scrivere anche così, fu la sua risposta, e questo stile di scrittura si chiama: ironia. Cominciai a scrivere con ironia di cose che non conoscevo (il matrimonio, per esempio… Avevo 12 anni) e la cosa piacque.
Nonostante questo o forse proprio per questo ho sempre faticato a considerare la scrittura “un mestiere”. Ho provato a fare il copywriter, il giornalista, il content manager, ma ho sempre dovuto fare i conti con l’impostazione di base della mia vocazione. Per me la scrittura è come il sesso. Il più personale dei piaceri. Non è detto che trasformarlo in un mestiere sia la scelta più azzeccata.
Così ho fatto di tutto, nella mia vita, separando nettamente il lavoro dalla scrittura. Sono stato vigile del fuoco, manovale, facchino, ruspista, magazziniere, montatore, agente di commercio, birraio, operaio metalmeccanico.
Attualmente lavoro a Palazzuolo, vicino a casa. Mi trovo bene, ho trovato un equilibrio soddisfacente. Esco alle 16 dal lavoro, in venti minuti sono a casa e ho davanti 3, 4 ore da dedicare, quando posso, alla scrittura. In genere quando mi dedico alla stesura di un’opera, mettendoci anche una decina di ore al sabato riesco a usare 40 ore a settimana per il lavoro e circa 25 per la scrittura.
Ma in tempi come questi, dove imperano messaggi e linguaggi alla Fedez, e dove l’immagine e il selfie va a discapito di tutto il resto, quale spazio c’è per la scrittura e il libro? La parola resta la più avanzata delle tecnologie, il sistema di comunicazione più interattivo che l’uomo abbia inventato finora.
Ho una fiducia enorme nella parola. Ho una paura altrettanto enorme della parola.
Interattive perché sono ontologicamente ambigue.
Prendiamo questa frase che uso spesso come esempio. Potrebbe essere l’inizio di un romanzo. Eccola:
“Svoltando l’angolo mente rientrava a casa, per un momento ebbe l’impressione di essere seguito”
Ecco: basta una frase, poche parole in tutto per suscitare delle immagini nella mente, rievocare suoni. È una scena che richiede partecipazione, stimolando chi legge a metterci del suo, lasciandogli la libertà di immaginare. Non ho ancora specificato nulla, non sappiamo ancora chi, cosa, dove, ma un’immagine e una scena si delinea già nella nostra mente. Basta una frase. Per quanto uno scrittore possa aggiungere dettagli, la scrittura funziona quando il lettore si sente autorizzato a fare suo il personaggio, immedesimandosi
A Barberino presenti la tua opera d’esordio. A distanza di qualche anno, come la definiresti? Puoi brevemente descriverla? Il nucleo centrale attorno a cui si è condensata la narrazione della Danza delle dita è un’esperienza che ho vissuto personalmente nel 2006. Ebbi un’idea folgorante, elaborare un linguaggio tattile capace di esprimere attraverso il più trascurato dei nostri sensi, il tatto, le stesse emozioni e risposte estetiche che le vibrazioni sonore generano per l’udito, le onde luminose per la vista. Per quattro giorni, prima di rendermi conto che qualcun altro aveva già avuto la stessa idea già nel 1920, vissi nell’illusione di essere un gigante dell’arte contemporanea. Lasciai perdere. Nel 2011, durante una serata in un pub a Firenze, all’improvviso ebbi l’impressione di trovarmi fra ragazzi che, più giovani di me di vent’anni, erano quello che eravamo stati noi negli anni dell’università. Mi guardai attorno cominciando a pensare’ ecco, quello potrei essere io. E quella non sembra Daniela? In pochi minuti mi venne la voglia insopprimibile di raccontare la storia di un gruppo di amici, aspiranti artisti, che desidera lasciare un segno, si interroga sul cosa fare. Capii che potevo legare quella storia nascente al mio fallimento come artista tattile. Nacque tutto da lì.
All’epoca il lavoro come birraio mi assorbiva completamente, non avevo tempo. Non utilizzavo ancora il sistema che uso adesso: prima di cominciare a scrivere faccio qualche saggio, butto giù qualche pagina di prova per cercare la voce, il tono, il punto di vista da cui raccontare, e poi faccio una progettazione narrativa il più accurata possibile: prevedo quanti capitoli fare, di cosa paralare in ognuno, quanto spazio dedicargli per avere un risultato finale armonioso e funzionale.
La locandina della presentazione a Barberino riporta una citazione di Papa Francesco: “La vera amicizia consiste nel poter rivelare all’altro la verità del cuore”. Perché la scelta di questa frase? Puoi approfondire? La frase della locandina non l’ho scelta io. Trovo giusto che siano gli organizzatori a definire il tema, la linea del percorso che si può seguire per fare un viaggio in un’opera, uno dei tanti possibili. Ogni lettura è diversa, sempre. Per esempio, se leggiamo una pagina in cui vediamo un dialogo tra padre e figlio ci verrà naturale porci dal punto di vista del figlio da adolescenti, in quella del padre in una rilettura vent’anni dopo. Il testo è inalterato: siamo cambiati noi.
Del resto, non ho scelto io neppure il titolo del libro. Il titolo originale, quello rimasto nel file del mio computer, era “Farcela”. L’editore mi disse che in base della sua esperienza era in pratica il titolo più brutto che gli fosse mai capitato di sentire. Allora gli stilai un elenco con una decina di titoli alternativi e la loro scelta cadde sull’ultimo, la danza delle dita, che trovarono evocativo, misterioso, intrigante. A ognuno il suo mestiere
“La danza delle dita” non è la tua unica opera. Poi cosa hai scritto?
Dopo di questa ho scritto “Schiaffeggiandomi rido”. Dopo la storia di 5 amici che sognano di farcela a trovare un proprio posto nel mondo e si illudono per un momento di esserci riusciti, ho scritto la storia di un libraio cinquantenne che viene tentato dalla possibilità di tradire la moglie. La storia di una tentazione, un tradimento sognato, invocato come salvifico. I due libri sono accomunati dal bisogno disperato dei protagonisti di allontanare una fine percepita come imminente.
La danza della dita comincia con una cornice vuota. Una cornice vuota appesa al muro in ricordo di una ragazza, artista promettente scomparsa in un incidente. Lei poteva davvero diventare qualcuno. È la percezione improvvisa di questa ingiustizia e di questo senso incombente di impermanenza e fragilità a spingere gli amici a fare qualcosa per lei, per loro, nel suo nome. Perché possa continuare a vivere.
E cosa hai nel cassetto? Ora sto scrivendo un romanzo, anzi due. Diciamo che ne ho una decina in progetto nei prossimi anni. Stavo scrivendo “Il migliore dei padri”, una storia ambientata nella prigione di Sollicciano (la progettazione narrativa è avanzata e definitiva) quando a Marradi siamo stati investiti dal problema della chiusura della Fabbrica dei Marroni. Le operaie sono state brave a resistere, appoggiate dalle istituzioni e da tutti noi, dal sindaco al prete. Sono state giornate straordinarie, umanamente ricchissime. Abbiamo riso e pianto insieme. Così, ho dovuto interrompere la scrittura del romanzo a cui stavo lavorando per cominciare “I Giorni del Presidio”. Libro difficile, dato che racconto una storia vera e attuale. Un romanzo a invenzione limitata, una operazione di sartoria giornalistica, un’epica villana. Ho dedicato un anno a stenderne lo studio preparatorio. Ora posso cominciare. E oggi possiamo dire: c’era una volta una fabbrica, e c’è ancora. Studiando per capire come affrontare narrativamente i vari aspetti della vicenda ho scoperto la letteratura Working Class, una letteratura contemporanea di ambientazione operaia scritta da operai. Esattamente il mio profilo: sono un operaio e uno scrittore.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 4 marzo 2023