La storia di Siro Giani, internato militare durante la Seconda Guerra Mondiale
VAGLIA – Arriva da Vaglia, dove adesso abita la figlia, la storia di Siro Giani, internato militare in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, che ha ricevuto nei giorni scorsi al Conservatorio Cherubini, dal Prefetto di Firenze, un’onorificenza alla memoria. Lo scorso anno il diario della sua vicenda, grazie all’impegno della figlia Franca, è diventato un libro, che alla vigilia del prossimo 25 Aprile sarà presentato alla biblioteca di Pratolino. In questa intervista Franca Giani ripercorre la vicenda del padre e la genesi del volume.
Suo padre Siro ha recentemente ricevuto un’onorificenza. Ci dica perché…
“Mio padre, Siro Giani, è stato un IMI, internato militare in Germania. Abitava ad Empoli, era un Sottotenente dell’Esercito Regio, fatto prigioniero in Grecia all’indomani dell’8 Settembre 1943. La sua storia inizia così: consegnate le armi ai Comandi tedeschi, erano stati portati a Messene, poi ad Atene e da lì con un percorso in treno di 18 giorni, fino a Norimberga; infine condotti al lager di Ziegenheim-Nord dove furono immatricolati. Mi padre vi rimase circa un mese per cominciare poi una vera odissea in svariati campi attraverso tutta la Germania. Sono passati 80 anni dai fatti.”
Come ha trovato il diario di suo padre?
“Era custodito in un cassetto, insieme a tanti altri ricordi. C’erano anche lettere e cartoline che aveva scambiato con la famiglia nel periodo della guerra, prima dalla scuola militare di Napoli, poi dalla Germania nel periodo tra il gennaio ed il luglio del 1944, periodo in cui la corrispondenza con la famiglia è stata possibile, perché dopo le cose sono precipitate ed è stato trasferito in tantissimi altri campi; la corrispondenza è ripresa solo dopo la liberazione. Questa memoria è rimasta sempre custodita in questo cassetto, fino alla morte di mia madre avvenuta nel 2017, mentre mio padre era morto nel 1988. Soltanto allora, nel 2017 dunque, dovendo vendere la casa dei miei, io ho preso in consegna tutte le loro cose; però non le ho guardate subito, non volevo dedicarmi a queste memorie in maniera frettolosa e superficiale e le avevo messe da una parte”.
Cosa l’ha fatta decidere invece?
“È stato il 24 d’aprile di due anni fa, nel 2022. Il mio nipotino Leonardo mi ha telefonato la sera chiedendomi notizie del bisnonno Siro. Ne aveva parlato con mio figlio e il bambino, che allora aveva sette anni e mezzo, aveva chiesto qualcosa sulla prigionia. Dopo quella telefonata mi sono sentita punta sul vivo, perché in effetti non ero stata capace di dargli delle risposte esaurienti. In quel momento ho sentito il bisogno di andare a riaprire quel “cassetto”: era arrivato il momento in cui dovevo fare questa cosa. Il materiale era in una scatola con oggetti personali, tanta corrispondenza e tanti documenti. Ho letto il diario, ho letto tutte le lettere, tutte le cartoline. Ci ho impiegato tutta la sera del 24 e il giorno 25, che era la festa della Liberazione, non a caso. Per me è stato molto significativo. Poi mi sono messa a copiare il Diario. Pur essendo leggibile, era scritto su un quadernino cartonato con le pagine un po’ sciupate; non era un oggetto da sfogliare troppo. Poi ho cercato di individuare tutti gli spostamenti da un campo di prigionia all’altro. Dal Nord della Germania, da Ziegenheim, i prigionieri erano stati mandati ad Est, in Polonia, quasi al confine con l’Ucraina, prima a Kölm, che è una località della provincia di Lublino, poi di nuovo spostati nella fortezza di Deblin, che era stata una prigione per i Russi, molto malfamata per tutte le cose terribili che vi erano successe. Da lì, nel gennaio 44, li spostarono di nuovo, questa volta a ovest perché i Russi avanzavano e il fronte si spostava verso ovest. Giunsero a Oberlangen, poi a Meppen: siamo al confine con l’Olanda.
Come descrive la prigionia nel suo diario?
“Mio padre era Sottotenente e ha frequentato campi per ufficiali, che non potevano essere costretti al lavoro. Hanno però sempre subito la propaganda tedesca, dal 9 di settembre in poi. Venivano loro promesse condizioni di vita migliori, se avessero lavorato al fianco dei tedeschi, che non avevano più uomini per le fabbriche. Oppure erano spinti ad aderire alla Repubblica Sociale e tornare in Italia. Erano continuamente sottoposti a pressioni. Mio padre racconta che in varie occasioni alcuni ufficiali aderivano alla proposta di “optare”, ma la stragrande maggioranza dei prigionieri non cedeva neppure alle lusinghe di cibo più abbondante: nei lager era la fame la piaga più temibile ma nel diario ci sono parole di disprezzo per chi aveva fatto questa scelta per poter mangiare di più, che però poi veniva costretto a controllare e sottomettere gli altri prigionieri. Le condizioni erano durissime: tanta, tantissima fame e tantissimo freddo, specialmente negli inverni del 1943 e del 1944: disumane. Tanto è vero che mio padre si ammalò gravemente più di una volta, quando erano in Olanda, e rischiò di essere eliminato; i malati gravi venivano fatti sparire: parla di svuotamento dell’infermeria per due volte. Si salvò perché qualcuno lo protesse nascondendo le sue vere condizioni; allora pesava 42 Kg.
Nel diario parla della liberazione, del ritorno in Italia?
“Sì, racconta il momento dell’arrivo degli Inglesi, era a Busum, sul Mare del Nord, quasi al confine della Danimarca. Dalla fine del Luglio 1944 fino all’Aprile del 1945, questi prigionieri furono costretti d’autorità a lavorare, altrimenti non avevano più cibo. Per lo più erano messi a scaricare i vagoni arrivati dalla ferrovia e a trasferire il materiale alle varie fabbriche: cellulosa, legname, cavoli salati, oppure mandati dai contadini a raccogliere. In quei mesi mio padre si è trovato a Colonia, a Bonn, a Brema, a Wietzendorf. Io ho fatto una ricerca e ho collegato tutte le località in una cartina per rendere l’idea di quel calvario. Dopo la liberazione, nell’aprile ’45, il rientro in Italia per mio padre è stato possibile solo alla fine di agosto; gli ex-prigionieri sono stati radunati nella zona di Amburgo, ma le ferrovie erano semi distrutte, inoltre materiali e militari avevano la precedenza su questi soldati italiani che tornavano a casa, e quindi si rimandava continuamente. Alla fine, da Amburgo, attraverso il Brennero, è arrivato il 28 Agosto del 1945.
Cosa racconta di questo arrivo?
“Siro non sapeva niente di quello che era successo negli ultimi mesi alla sua famiglia. Racconta che salendo in treno un conoscente di Empoli, gli disse che la sua famiglia non stava più a Empoli perché la casa era stata minata. Allora scese a Montelupo e andò a cercare dei parenti, dei cugini, che però non sapevano niente. Con un mezzo di fortuna ritornò a Firenze dove c’erano altri parenti e alla fine riuscì a capire dove cercare i suoi. Da lì iniziò la ricostruzione. Anche suo padre, mio nonno, che nel frattempo era stato incarcerato perché aveva aderito al fascismo, venne rimesso in libertà quasi subito. Però la famiglia abitava a casa di parenti, che non lo vollero ospitare. In quel periodo anche all’interno delle famiglie si crearono dinamiche pesanti: a me viene sempre in mente quello che diceva Edith Bruch, nel suo libro “Pane perduto”, che quando venne liberata e si presentò a casa dei fratelli, questi non la vollero ospitare”.
Come ripartì la vita di suo padre?
“Lui era un maestro elementare, come sua mamma, che è stata anche la mia maestra. Hanno potuto ricostruire la loro vita grazie al lavoro. Al ritorno si presentò al distretto militare: dove i soldati rientrati venivano interrogati e controllati, per vagliare tutte le varie situazioni: c’era chi aveva partecipato al nazifascismo, chi al lavoro con i tedeschi. Infine fu riconosciuto libero e gli venne rilasciato un attestato che gli permetteva di lavorare a scuola. Iniziò il 24 Novembre del 1945 con un incarico ad Albero di Marradi, ad otto chilometri dal paese: uno dei Comuni più sperduti nella Provincia di Firenze. Questa è una bella storia nella storia: trovò un alloggio in una fattoria, una stanza dove non c’era niente, nemmeno i vetri alle finestre. Non c’era neanche più la scuola. Allora si rivolse al prete del paese e trovò una stanza con la stufa dove portare i bambini, poi andò in Comune e alla fine riuscì a ottenere un letto, qualche coperta. E a quel punto la sua vita ricominciò”.
Riuscì a riallacciare tutti i rapporti?
“Sì, oltre a riunire la famiglia a Firenze nella zona di Rifredi, ritrovò la fidanzata che aveva lasciato a Vercelli. E’ una storia d’amore molto bella che era iniziata nel 1942, quando mio padre, appena diventato sottufficiale, venne destinato prima a Piacenza poi a Vercelli. Qui incontrò quella che poi sarebbe diventata mia madre. Lei, che frequentava il Magistero, andava a Torino per sostenere gli esami e si conobbero alla stazione. Fecero amicizia, si piacquero subito e si fidanzarono; mio padre chiese il permesso alla famiglia di lei, poi mio nonno di Empoli andò a conoscere la famiglia di Vercelli. Fu una storia appassionante, che però fu interrotta il 24 marzo del ‘42, quando Siro venne spedito in Grecia a combattere e dove cominciò poi la prigionia… Penso che questo amore, molto forte, l’abbia tenuto in vita nei momenti più terribili, grazie alla speranza di ritornare a casa e ricongiungersi alla fidanzata ma anche questo fu molto difficile. Quando lui nel 1945 era finalmente riuscito a tornare a Vercelli per riabbracciarla, trovò una situazione di disperazione anche lì. Al momento della Liberazione, infatti, il fratello di mia madre, poco più giovane di lei, si era ammalato di tubercolosi e in pochi mesi era morto. Entrambe le famiglie erano affrante e vivevano in condizioni di precarietà. Nel 1957 vivevamo tutti a Firenze, in appartamenti diversi, in una casa detta dei maestri (c’era stata una legge che ne aveva permesso la costruzione: le cooperative costruivano le case a riscatto, e siccome anche mia nonna era maestra avevano potuto accedere a questo beneficio). Le due famiglie, quella di mio padre e quella di Vercelli, hanno sempre collaborato: mentre mio padre era in prigionia, ad esempio, la fidanzata e la sorella piccolina, per un lungo periodo avevano soggiornato a Empoli; insieme organizzavano la spedizione dei pacchi alimentari, dal gennaio fino al Luglio del ’44, che non arrivavano regolarmente ma potevano essere spediti tramite la Croce Rossa; si scambiavano lettere e notizie.
Come è nata l’idea del libro?
“Il libro è nato prima di tutto dalla profonda commozione suscitata in me e nei miei familiari dalla lettura del Diario e dal desiderio di condividere con altri una testimonianza di vita così straordinaria e autentica; prima di tutto per farla conoscere agli amici ma anche a chiunque voglia riflettere sulla gravità e l’orrore delle guerre che anche in questo momento sono in corso e sulle loro conseguenze. Ho trascritto il testo integrale, poi ho cercato delle associazioni che potessero essere interessate alla pubblicazione. Alla fine l’originale, con tutti i documenti relativi, l’ho donato al Museo Storico della Liberazione di via Tasso a Roma perché mi è sembrato il miglior modo di onorare la memoria di mio padre. Questo museo infatti accoglie nel suo archivio anche le testimonianze degli IMI perché anche questi prigionieri, con la loro resistenza passiva, sono stati parte della Resistenza. Il libro basato sul diario, invece, è stato stampato ad Ottobre 2023 dall’Associazione che si occupa di vedove e orfani dei caduti e dispersi in guerra. Adesso mi sto dedicando a presentarlo al pubblico e a varie associazioni; il 24 Aprile faremo una presentazione alla biblioteca di Pratolino”.
E nei giorni scorsi le è stata consegnata l’onorificenza…
“Sì, la Prefettura in occasione della Giornata della Memoria, ha consegnato quattro onorificenze alla memoria per gli internati nei campi di concentramento della Germania. È stato un bell’incontro, molto sentito, tutti hanno avuto parole importanti; soprattutto parlando di giovani e del dovere della memoria oltre che del bisogno e della necessità di vincere l’indifferenza, che è la grande sfida del nostro tempo; per far questo la storia bisogna conoscerla”.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 25 febbraio 2024