
SCARPERIA E SAN PIERO – Un rumore cadenzato di zoccoli arrivava dalla polverosa strada che portava al convento di Bosco ai Frati e di lì a poco dalla fitta boscaglia sbucò a dorso di un mulo spelacchiato un individuo piccolo di statura con una strana barba a doppia punta, naso aquilino e guance scavate. Era piuttosto sporco, le vesti lacerate e tutto sudato nonostante l’autunno inoltrato portasse con sé in dote una fresca brezza mattutina.
Gli alberi intorno al convento quel giorno avevano vestito l’abito della festa; i gialli, i rossi, l’ocra sembravano gemme preziose nate per arricchire di splendore e luce il volto autunnale di madre Natura. Nel piazzale dell’edificio religioso un uomo accanto a un bel cavallo baio attendeva paziente l’arrivo del cavaliere sudato. Al contrario dell’altro era di corporatura robusta e aspetto piacevole, ben vestito, occhi scavati e bocca sottile. Aveva un certo non so che di autorevole nello sguardo, nero e fiero. “Ciao Lozzo, è molto che aspetti?” domandò l’uomo del mulo con voce ansimante ancor prima di scendere di sella. “No Tello, non ti preoccupare, gli amici si aspettano volentieri e poi i frati non si sono ancora fatti vivi…” rispose l’uomo del cavallo con voce profonda.

Era l’ottobre del 1425 e i due uomini dovevano eseguire alcuni lavori nel convento commissionati da Cosimo de’Medici il vecchio in persona. O meglio, a dire il vero nessuno lo chiamava ancora “il vecchio”, sarà la Storia a farlo in seguito; per loro era soprattutto un amico e un generoso mecenate. Tello scese dal mulo bestemmiando incurante di essere davanti a un convento e, tutto agitato, raccontò di una caduta di sella giù vicino a Cafaggiolo. “Quel maledetto posto mi porta sfortuna perdio (qui ho inserito la censura), ogni volta che capito da quelle parti, mi succede qualcosa”. “Non ti agitare” rispose Lozzo con tranquillità “è solo un caso e poi ti dovrai abituare a quel posto perché messer Cosimo mi ha chiesto di fare dei lavori anche in quella villa. Vuol fare un fossato, un camminamento, delle stanze per gli arredi e delle sculture, e quindi ho bisogno di te laggiù.” Tello fece una smorfia di disgusto, mugugnò qualcosa d’incomprensibile e cominciò nervosamente a smontare i bagagli dalla sella del mulo.
Donatello e Michelozzo avevano deciso di chiamarsi tra loro così, con quei nomignoli confidenziali: Tello e Lozzo. A volte Michelozzo si domandava come avevano fatto a diventare amici loro due, in fondo così diversi. Lui era più giovane dieci anni, gli piacevano diverse ragazze da marito in Firenze mentre a Donatello non importava un fico secco delle femmine; lui era uno concreto, preciso e puntuale e l’altro un disordinato cronico, lui era attento nel vestirsi mentre l’altro si metteva addosso quel che capitava. E poi Tello non faceva nulla per restare simpatico anzi, era uno stravagante con la testa tra le nuvole e la risposta arrogante. Negato per le cose pratiche, spesso non pagava i debiti solo perché non ricordava di averli e tante volte aveva dovuto provvedere Lozzo a sua insaputa. Quando poi c’erano le tasse di mezzo erano veri dolori! “A proposito, ricordati di fare la denuncia dei beni al catasto quest’anno!” gli ricordò Lozzo. “Ahimé amico mio, sono disperato, e un so’ nemmeno da che parte cominciare, e un mi’intendo di questa robaccia, potresti pensarci te per favore?”
Lozzo pazientemente, quasi fosse un fidato segretario, provvedeva alle denunce. Si narrava che nella bottega fiorentina Tello tenesse appesa al soffitto una borsa piena di fiorini e chiunque dei suoi garzoni ne aveva bisogno poteva attingervi liberamente. Per dire che tipo era. Forse erano favole, però il carattere di Donatello era quello nel bene e nel male, c’era poco da fare.

Michelozzo si sorprese a pensare che quell’amicizia derivasse dal comune amore per l’Arte che bruciava dentro di entrambi come un grande fuoco, a lui per l’architettura e all’amico per la scultura. E poi Donatello era un brav’uomo, generoso e sincero; diceva sempre quello che pensava, non aveva mai un atteggiamento falso. Così il sodalizio artistico alla fine era sfociato in una sincera amicizia. Proprio in quel momento la porta del convento si aprì e frate Arnolfo s’avvicinò ai due con fare servile: “Signori, benvenuti, la nostra umile casa è la vostra casa, venite che vi faccio vedere gli alloggi”. “Speriamo che non sia tanto umile, perlomeno a tavola” bisbigliò Tello ridacchiando nell’orecchio a Lozzo che lo guardò con rimprovero.
Depositati i bagagli, il frate mostrò le parti del convento che avevano bisogno di restauro. Non sapeva ancora che Michelozzo aveva in mente altro: una trasformazione radicale e abbellimenti realizzati con tecniche all’avanguardia. Il geniale architetto aveva tutto chiaro in testa e la cosa, in effetti, riuscirà benissimo, un capolavoro. Passarono i giorni con i due impegnati al lavoro tra progetti e operai. Tutti i santi giorni un tale Bernardo d’Antonio, contadino del podere di Gabbianello dai modi burberi e faccia rugosa e sofferente, veniva a trovare Donatello così simile a lui per carattere tanto da farci amicizia; portava sempre allo scultore le primizie dell’orto, delle pere o magari uova d fresche di pollaio. Poi i due cominciavano a chiacchierare fitto; Michelozzo non aveva mai capito cosa avessero da dirsi quei due di tanto importante.
In quei mesi i frati viziarono i due artisti, diventati come fratelli laici; li coccolavano in tutti i modi e il tempo passò in fretta. Venne il momento della partenza, ma nell’ultima visita ai lavori Cosimo il vecchio aveva chiesto a Donatello di realizzare un grande Crocifisso ligneo per la chiesa, il più bello possibile, più di quello di Santa Croce, e senza badare al prezzo; per Bosco ai Frati il Medici voleva il meglio in assoluto, era quello il suo convento prediletto di cui aveva sempre coperto tutte le spese. Non poteva mica affidare quell’importante lavoro a uno scultore, un intagliatore o magari a un idiota qualsiasi; ci voleva l’eccellenza, vale a dire Donatello!

Il nostro eroe prese un pero ormai disseccato vicino al convento e da quel povero legno creò un Cristo meraviglioso con una faccia sofferente precisa identica a quella di… Bernardo, il suo amico contadino! Un capolavoro che, per giunta, volle regalare ai bravi frati che così bene lo avevano trattato in quei mesi; in cambio, la loro riconoscenza gli bastava. Cosimo rimase davvero colpito. Molti anni dopo, quando Donatello anziano se la passava male, Michelozzo suggerì a Piero, figlio di Cosimo, di regalare all’artista proprio il podere a Gabbianello che era stato un tempo di Bernardo.
Passò qualche settimana e a Michelozzo arrivò una bella letterina: “Caro Lozzo, ti prego di comunicare al Magnifico Signore Piero de’Medici che ogni terzo giorno il contadino dal Mugello mi è intorno perché il vento gli ha scoperto la colombaia, ha perso una bestia o la tempesta ha distrutto il raccolto. E parmi stufo e sazio di quel fastidio e dovrei fare anco le denunce catastali del podere! Preferirei morir di fame che dover pensare a queste sciocchezze. Perciò chiedi il favore di togliermi questa gravezza che ci tengo alla salute e desidero morire in pace.”.
Michelozzo pensò che con l’età l’amico non fosse cambiato e riferì a Piero de’Medici il quale ci rise sopra di gusto. Con generosità, assegnò un più concreto vitalizio al vecchio scultore che aveva con quel suo Cristo sofferente degnamente arricchito d’Arte sublime il già meraviglioso convento di Bosco ai Frati.
Nota dell’autore– il racconto è dedicato a tutti i presunti esperti che, pur avendo visto di persona la magia dell’incredibile Crocifisso di Bosco ai Frati pensano che sia opera di un intagliatore qualsiasi, di una scuola qualsiasi, di un falegname qualsiasi oppure, perché no, un lavoro di Mastro Geppetto.
Fabrizio Scheggi
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 10 aprile 2022