Se vivi vicino ai passi, di faccia a valichi strategici, la geografia ti condanna. Per questo di guerre il Mugello ne ha conosciute parecchie. Dirette e indirette. Dai passi sono calati i lanzi, gli spagnoli, prima di loro tribù barbare, dopo di loro i tedeschi. Barberino, attorno al ‘500, fu devastata più volte, Marradi fu dissanguata anni prima dai mercenari del Conte Lando, tutti i comuni della valle portano i segni della seconda guerra mondiale, bombe tedesche e bombe alleate.
Al primo conflitto mondiale, invece, prestammo uomini, contadini soprattutto. Carne da macello, plebaglia destinata alle fanterie, a crepare in terre di confine. Basta scorrere le lapidi infisse alle mura di una chiesa o di un palazzo pretorio per capire. Giovani, poveri in canna, chiamati a servire una patria che conoscevano appena. Ai piani alti si contano poche presenze. Qualche tenentino appena laureato, un pugno di capitani – Francesco Giunta e Francesco Baldi tra questi, tra i fondatori del fascismo locale e il Giunta addirittura segretario nazionale del PNF nel 1923 – un generalissimo, Pecori Giraldi, vittorioso in una delle tante battaglie sull’Isonzo.
Ricorre quest’anno il centenario della vittoria. Il Novecento inizierà proprio in quei giorni, secolo breve un corno. Al contrario: un secolo così lungo che a traino della prima fa esplodere la seconda guerra mondiale, origina due grandi totalitarismi, quello nazifascista e il suo dirimpettaio comunista sovietico, provoca una ecatombe senza pari e finalmente si rovescia nel suo contrario dando vita a cinquant’anni di pace relativa, costruendo l’Unione Europea, sfidando la natura con una continua rivoluzione scientifica.
Al momento dell’entrata in guerra, nel 1915, il Mugello rigurgitava di circoli cattolici e di sezioni socialiste. Contrari entrambi. Anche i sindaci liberali di matrice giolittiana non gioivano. Il ‘Messaggero del Mugello’ si era adeguato col passare del tempo, ma con cautela, alla posizione interventista. Solo una piccola minoranza di stampo risorgimentale spingeva per schierarsi al fianco di Inghilterra e Francia. Eppure, nonostante tutto, contadini che non si erano mai allontanati dall’aia del podere se non per la processione del venerdì santo o per il mercato, fecero tutti il loro dovere di italiani. Armando Gori, un vicchiese di trent’anni, partecipa addirittura all’affondamento della corazzata austriaca Santo Stefano, la perla della flotta imperiale. Per il resto, guerra di trincea. La peggiore.
Quando tornarono erano uomini diversi. Intanto avevano ‘visto il mondo’: mescolato dialetti, confrontato idee diverse, intuito che esistevano altre Italie. E poi vissero un terribile tradimento. Nessuno assaporò né il pane né la terra promessi dopo Caporetto. Una volta a casa, vissero biennio rosso e biennio nero, si accesero per la rivoluzione russa o la temettero, scioperarono per il rinnovo dei patti colonici, assistettero alla defenestrazione dei sindaci rossi da parte delle squadracce fasciste. Il ventennio era alle porte. Ti ricordo, infine, che per un pugno di fanti la guerra non finì nel 1918. Qualche mugellano fu sbalzato a Massaua e, da lì, a Tientsin, in Cina, a rafforzare i battaglioni destinati a fronteggiare l’Armata Rossa in Manciuria. Tra di loro, un barberinese, il Risaliti. Tornerà soltanto nel 1921, ed era partito nel maggio 1915. Mai una licenza, mai un giorno di riposo lontano dal fronte. Mai. Ecco, a tutti loro dobbiamo ciò che siamo diventati. Una nazione.
Riccardo Nencini
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 11 novembre 2018