
FIRENZUOLA – È mancato Nicolaj Orlov partigiano della 8^ e della 36^ brigata partigiana Garibaldi – Bianconcini, che ha partecipato alla lotta contro i nazifascisti sulle nostre montagne nel 1944. Ci ha dato la triste notizia la Sig.ra Maria Micele Zappi, che, con il marito Graziano Zappi, il partigiano “Mirco” (1927-2017), è rimasta in contatto di amicizia con i partigiani russi anche dopo la guerra fino ad oggi, in particolare con Nicolaj Orlov con il quale “Mirco” aveva combattuto. Della brigata Garibaldi – Bianconcini, particolarmente attiva nella Valle del Rovigo, facevano parte anche molti stranieri: soldati alleati fuggiti dalla prigionia, ma anche militari fuggiti dalla Wehrmacht, fra i quali una quarantina di russi, ucraini e soldati di altre nazionalità sovietiche che avevano accettato il reclutamento nei servizi ausiliari dell’esercito tedesco per sfuggire ai lager e che poi, nella confusione dei bombardamenti, aerei avevano disertato.

Per questi soldati stranieri fu fondamentale l’aiuto delle popolazioni locali grazie alle quali poterono raggiungere le formazioni combattenti in montagna. Tra questi Nicolaj Orlov, nato a Velikopolie di Smolensk (U.R.S.S.) nel 1926, ingegnere agricolo, morto pochi giorni fa.
Nicolaj raccontò la sua storia in una memoria che fu pubblicata su LA RESISTENZA A BOLOGNA di Luciano Bergonzini e nel nostro libro FIRENZUOLA ATTRAVERSO LA GUERRA NEL CUORE DELLA LINEA GOTICA, curato da Luciano Ardiccioni. Riportiamo qui la sua testimonianza per ringraziare i partigiani stranieri nella lotta per la Liberazione italiana dal nazifascismo, e mantenerne vivo il ricordo:
«Il 9 maggio 1941 compii quindici anni e mi iscrissi all’ottava classe della scuola di Znamensk. Ma i miei progetti e i miei sogni furono infranti dalla guerra. In luogo di matite e manuali, fummo costretti a prendere in mano badili, picconi, fucili. I tedeschi si lanciarono verso Mosca e la loro strada passava attraverso il nostro paese, io sono nato e vissuto nel villaggio di Velikopolie, del mandamento di Znamensk (ora Ugransk) nella regione di Smolensk. Nel gennaio 1942 i partigiani liberarono dagli occupanti un vasto territorio. In uno dei reparti partigiani avevo combattuto anch’io. Nel febbraio 1943 i tedeschi mi fecero prigioniero e mi gettarono in un campo di concentramento, e in ottobre mi portarono in Italia sempre in un campo di prigionia situato nei pressi di Sant’Arcangelo di Romagna. Fin dal giorno della cattura da parte dei tedeschi io e i miei compagni non abbandonammo mai l’idea di fuggire dalla prigionia. Trasferendoci in Italia i tedeschi speravano che noi, trovandoci in un Paese straniero di cui non conoscevamo la lingua, non avremmo potuto comunicare con la popolazione locale. Giunti in Italia però noi avvertimmo subito l’amichevole simpatia degli italiani semplici. Non lontano dal campo e dalla città si trovava un piccolo paese e i contadini cercarono di entrare in contatto con noi. Mi consegnarono un pezzo di carta geografica di una parte montagnosa dell’Italia dal quale non mi separai fino alla fine della guerra. Essi ci fecero sapere anche che sui monti erano in azione i partigiani. Nel febbraio 1944 i tedeschi ci mandarono ad allestire delle fortificazioni a sud, in una località non lontana da Firenze. Durante una incursione aerea, io riuscii a fuggire. Dopo due settimane di peregrinazione sui monti ebbi modo di conoscere appieno l’amichevole simpatia dei contadini. La nostra fine sarebbe stata inevitabile se non ci fossero venuti in aiuto i contadini italiani.
Mi dispiace di non essere in grado di citare i nomi degli amici che ci aiutarono. Erano ragazzini, vecchietti, uomini di mezza età: pastori e boscaioli, carbonai ed altri. Essi dividevano fraternamente con me l’ultimo pezzo di pane quando apprendevano che ero un russo fuggito dalla prigionia. Essi ci mettevano in salvo, ci davano da mangiare e da bere, ci nascondevano dai tedeschi e dai fascisti, ci indirizzavano nelle ricerche.
Capitai così sul monte Falterona, ma i partigiani non c’erano più. In quel periodo i tedeschi facevano delle spedizioni punitive. Sui monti c’era ancora la neve e quello fu per me un periodo molto duro. Finalmente, con l’aiuto degli italiani, incontrai in un castagneto delle guide partigiane. Fummo accolti – eravamo in due: io e Vasilij Vdovin – in un reparto che era dislocato in un villaggio di montagna costituito da poche case. Ci diedero un’arma, una carabina, dalla quale non mi separai fino alla fine di ottobre.
Dopo qualche giorno, ci fecero passare ad un altro reparto e con noi vennero alcuni italiani, uno dei quali – come seppi in seguito – era Mirco Zappi. Entrammo così nella compagnia di Simì della 36ª Brigata Garibaldi che, al comando di Lorenzini, operava nella zona di monte Faggiola. In quell’occasione conobbi il Moro, commissario della brigata, un comunista molto buono, dotato di grande esperienza.

Più tardi nella nostra brigata cominciarono ad arrivare altri russi fuggiti dalla prigionia. Fu qui che incontrai Aleksander Ghioiev. In giugno, al termine di un combattimento, il comandante della brigata morì e comandante divenne Bob. Io facevo parte della squadra comandata da Otello Grillini. Erano assieme a lui i fratelli e noi tre russi. Come membro della brigata, io presi parte a molte operazioni e ai combattimenti che la brigata sostenne nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Presi parte all’occupazione di Palazzuolo che fu seguita da una spedizione punitiva in grande stile. Noi demmo battaglia, ma l’attacco fu improvviso e noi dovemmo ripiegare.
Ciò avvenne all’inizio dell’organizzazione della brigata. Durante la mia permanenza in Italia ho visto le città di Ravenna e di Rimini (questa, per la verità, era completamente distrutta), e anche Roma, Taranto, Napoli, mentre le città vicino alle quali ho dovuto combattere, sono riuscito a vederle solo di lontano: la città di Bologna la vidi, per l’appunto, da lontano, quando i nostri andarono in ricognizione. Noi eravamo molto vicini a Bologna, ma non avevamo accesso alla città. Ricordo bene la disfatta di una colonna tedesca su una camionabile, quando noi coprimmo di granate le loro automobili.
Noi cambiavamo spesso di posto, secondo le regole della guerriglia. Il caso dell’ufficiale dei carabinieri che era di guardia al ponte, così come il sacerdote-staffetta mi fecero comprendere quali dimensioni aveva raggiunto la resistenza del popolo italiano al nazifascismo. Sono convinto che il popolo italiano, avendo così buone tradizioni, non permetterà la rinascita del fascismo.
All’avvicinarsi degli americani, la brigata si divise in battaglioni e, dopo aver sfondato il fronte dei tedeschi, tenemmo la difesa fino all’arrivo degli americani. Subito gli americani ci separarono dagli amici italiani, senza neppure darci il tempo di salutarci, e ci condussero in un campo di raccolta vicino a Livorno. È molto difficile ricordare i fatti dopo un intervallo quasi trentennale, perciò i singoli episodi non riescono a formare un quadro generale. L’amicizia nata durante la lotta comune dà i suoi frutti. Noi siamo ancora oggi uniti da questa amicizia».
La testimonianza di questo partigiano straniero, l’ultimo superstite di quelli che avevano combattuto in questa zona, dimostra il carattere internazionalista della lotta partigiana. Essa deve farci riflettere sull’umanità di giovani combattenti come il russo Nicolaj e degli italiani come “Mirco” che hanno saputo affrontare insieme pericoli mortali, uniti per la nostra libertà, oltre alle difficoltà dovute dalle diversità linguistiche e culturali.
Rosanna Marcato
Associazione Cittadini per la Difesa del Santerno
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 10 Febbraio 2024