Sua Maestà il Cervo
MUGELLO – Il 28 settembre del 1992 me ne tornavo da un’escursione a Porcellecchi, a nord di Villore. Scendevo sulla piccola strada di montagna con particolare attenzione nel timore di spaventare qualche selvatico; ero ormai giunto a un mezzo chilometro dall’auto quando, dopo una curva, a un centinaio di metri di distanza, mi apparve sull’altro versante della valletta un grosso animale che pascolava in un praticello. Lo osservai bene col binocolo: aveva un mantello di colore rossastro, orecchie molto lunghe con forti sfumature nere come sulla testa, collo lungo e sottile, coda corta. Non avevo mai visto un essere simile. Accanto c’era un esemplare più piccolo, che a prima vista si sarebbe detto un capriolo ma guardando bene notai che al posto del caratteristico splendente specchio anale aveva una zona giallastra. L’animale grande mi guardò per qualche momento, poi si girò e con lentezza si rifugiò tra i vicini cespugli, seguito dall’altro animale che mi aveva lasciato dubbioso: allora ebbi la certezza di aver incontrato una cerva col suo cerbiatto. Ricordo ancora oggi l’emozione di quell’incontro, la calma solenne con cui la cerva rientrò al coperto, tra le ginestre e le caspe di faggi, col suo piccolo al seguito!
In effetti già da qualche mese avevo visto sulla strada delle impronte di zoccoli molto più grandi di quelle dei caprioli; avevo pensato al cervo, ma mi sembrava impossibile che fosse presente a Vicchio. Riflettendo considerai però normale un tale evento, dato che a sud-est, a poco più di dieci chilometri lungo il crinale appenninico, si trovava il grande massiccio del Falterona, divenuto Parco Nazionale. E in Casentino il Granduca aveva un suo territorio di caccia, che aveva fatto ripopolare dal boemo Karl Simon per dotarlo di prede degne del suo rango: mufloni, caprioli, daini e, per l’appunto, cervi.
Il ripopolamento si era reso necessario in seguito alla scomparsa dei grandi animali erbivori provocata, a partire dal XVII secolo, dal disboscamento, dalla diffusione delle armi da fuoco, dalla crescita demografica e dal pascolo degli animali domestici. Di conseguenza in Italia, dopo la seconda guerra mondiale, era rimasto qualche cervo solo in Val Venosta, in Casentino, al Bosco della Mesola e in Sardegna. Tra questi esemplari gli unici provenienti dal ceppo originario italico sono forse quelli della Mesola, poiché gli altri derivano da reintroduzioni dell’uomo in tempi storici o, per la Sardegna, preistorici.
Tra il 1950 e il 1980 il Corpo Forestale dello Stato ha incentivato la politica delle reimmissioni, rimpolpando le popolazioni esistenti e creando nuovi nuclei. Così oggi il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi è diventato un importante centro di diffusione del cervo in Appennino, interessando anche i nostri monti. Nel Pistoiese c’è un altro Parco Nazionale, quello dell’Orecchiella, da dove i cervi sono partiti arrivando vicino a Barberino del Mugello. Per certi versi sarebbe auspicabile che i due gruppi potessero incontrarsi ma l’ostacolo maggiore è rappresentato dalle strade statali del Giogo e della Faentina, trasversali al crinale appenninico.
Il maschio del cervo può superare anche i 200 chili; i suoi palchi ramificati hanno sempre colpito la fantasia umana, facendo pensare ad una corona regale. Per questo era la preda preferita nelle cacce dei regnanti, come attesta la leggenda dell’origine nobiliare degli Ubaldini, i grandi feudatari appenninici nemici di Firenze: il loro capostipite avrebbe afferrato, durante una battuta di caccia, un cervo per i palchi, consentendo all’imperatore Federico Barbarossa di ucciderlo, ricevendone in premio titoli e terre.
La caratteristica che distingue tutti gli appartenenti alla famiglia dei cervidi dagli altri ungulati è proprio il palco, una struttura che si forma e cade ogni anno, impegnando severamente il metabolismo di questi animali. Nei cervi i palchi cadono tra febbraio e marzo e non è infrequente trovarli a terra: se sono stati abbandonati da tempo, vi si possono vedere segni di rosicchiamento. Si tratta infatti di vere e proprie ossa composte da fosfato tricalcico e quindi per molti animali costituiscono una specie di miniera salina per integrare l’alimentazione con elementi importanti quali fosforo e calcio. Appena caduti, i palchi ricominciano a crescere, generati e nutriti da un tessuto coperto di pelle che si chiama velluto, in modo da essere pronti, tra fine agosto e i primi di settembre, per la successiva stagione riproduttiva.
Tra settembre ed ottobre il maschio difende un proprio territorio, segnalandolo con freghi, marcature odorose e raspate, ed emettendo il suo “bramito”, una via di mezzo tra un muggito ed un ruggito. Il bramito serve ad indicare agli altri maschi la forza di chi lo emette, per cui le sfide si possono avere solo tra animali di pari potenza, evitando danni inutili ad altri maschi non all’altezza dello scontro. Il bramito è qualcosa che si “sente”, non si ode, perché nella penombra del bosco questo verso potente muove qualcosa nel profondo dell’anima. Ci fa percepire con chiarezza la forza della natura selvaggia e la nostra piccolezza al confronto. Ci fa capire come le nostre immense capacità possano essere travolte da realtà a noi vicine che non possiamo controllare fino in fondo.
Quando, a fine settembre, vado alla Fonte del Borbotto, all’ingresso del Parco Nazionale, i bramiti che salgono dal fondovalle mi riempiono di inquietudine nel constatare la continuità di vita che esiste tra il mondo ancestrale, la nostra epoca e quella che ci seguirà con o senza di noi. Del resto, la regalità del cervo non può suscitare pensieri banali o materiali: davanti al re occorre essere all’altezza della sua presenza.
Paolo Bassani
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 20 giugno 2021
Gli animali tutti hanno una maestà, stile, e saggezza superiori ai nostri.Guardando queste bellissime immagini sembra impossibile che ci siano esseri che ha vederle pensino solo a imbracciare un fucile!Ma gli umani devono fare ancora molta strada per riuscire ad esserlo, umani!
Scusate l’errore non rileggo mai:a vederle!