Un antico dipinto a Ronta, ex-voto dopo la pestilenza: la “Madonna con Bambino e Santi” di Lorenzo Lippi
MUGELLO – Come siamo costretti a provare in questi drammatici giorni, le epidemie, più frequenti in passato di quanto, per fortuna, non accada oggi, sono delle esperienze devastanti che lasciano un segno indelebile nella vita di chi le attraversa. Nei secoli trascorsi erano frequentemente considerate delle punizioni divine, come ricorda, ad esempio Boccaccio nella prima giornata del Decameron a proposito della peste “nera” del 1348 (“per le nostre inique opere da giusta ira di Dio mandata sopra i mortali”), oppure come si evince da un passaggio della circolare inviata nel 1629 dal granduca Ferdinando II de’ Medici, ove si legge “Haviamo già in Italia per colpa de’nostri peccati i flagelli della guerra, della carestia e della peste” (cfr. L. Chini, Storia antica e moderna del Mugello, v. III, p. 302). La profonda religiosità delle persone, di fronte anche all’impotenza degli uomini, spingeva quindi a rivolgersi all’Onnipotente ed alle immagini sacre già oggetto di intenso culto, per ottenerne la benevolenza o l’intercessione per il termine del flagello, lasciando poi, come ringraziamento, testimonianza di quanto accaduto con opere, veri e propri segni che fortunatamente sono spesso giunti fino a noi, muti testimoni non solo della loro frequente e intrinseca bellezza ma anche di una profonda esperienza di vita, individuale e sociale di cui rischiamo di perdere consapevolezza e di smarrire il significato più profondo.
Anche nella terra del Mugello, la cui gente ha, nel corso dei secoli, subito le ferite delle epidemie, sono ancora oggi rintracciabili testimonianze del genere legate alle epidemie ed alle catastrofi naturali che si sono abbattute nel tempo e che, come detto, ai nostri occhi rischiano di perdere parte essenziale del loro valore se ignoriamo il contesto che le ha prodotte. Non sarà forse inutile, perciò, in questi giorni difficili, (ri)scoprirne alcune, note e meno note, per definire un possibile itinerario di arte, fede e storia.
Un primo esempio del genere si può incontrare a Ronta, nella chiesa parrocchiale dei Santi Paolo e Michele, dove, chi non lo conoscesse, potrà andare ad ammirarlo appena sarà consentito tornare alla vita normale.
Durante la terribile epidemia di peste che sconvolse l’Italia settentrionale negli anni tra il 1629 ed il 1633 (si tratta della pestilenza resa famosa da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi) il terribile contagio, che ebbe come epicentro il capoluogo lombardo, si era spinto fino al Granducato di Toscana ed aveva interessato anche il Mugello, dove i primi casi si verificarono nel giugno del 1630 e dove, con fasi alterne, rimase attivo fino al 1633, mietendo vittime quasi ovunque. E tuttavia, malgrado che la pestilenza dilagasse nella vallata mugellana, alcune località ne rimasero immuni, tra cui sicuramente Ronta, malgrado fosse collocata lungo la strada faentina, che collegando la Toscana con la Romagna costituiva un importante veicolo del contagio. Pare accertato, infatti, che questa località sia stata praticamente risparmiata dal contagio e che non abbia conosciuto nessun caso conclamato di malattia.
Una delle ragioni del prodigioso evento fu identificata nella protezione accordata alla popolazione locale dalla venerata immagine custodita all’interno del vicino oratorio della Madonna dei Tre Fiumi, la cui devozione era notevolmente accresciuta in quel periodo, come sembra testimoniare l’ampliamento dell’oratorio stesso e la costruzione di un refettorio, avvenuti proprio nel 1634.
Un documento dell’Accademia del Disegno di Firenze testimonia che nell’estate del 1634 gli operai (amministratori) dell’oratorio della Madonna dei Tre Fiumi avevano commissionato un dipinto al pittore Lorenzo Lippi, dipinto che in un primo momento era stato ritenuto disperso. In uno studio di qualche tempo fa, Riccardo Spinelli (in Paragone, 1986, n. 437, pp. 39-41) ha invece dimostrato che il documento è da riferire al bel quadro con la Vergine in gloria e Santi, attualmente collocato sulla parete sinistra della chiesa di San Paolo e San Michele a Ronta, e che costituisce, con tutta probabilità, un ex voto voluto dagli operai dell’oratorio della Madonna dei Tre Fiumi come ringraziamento per la fine della pestilenza e per aver risparmiato gli abitanti di Ronta. Inoltre, lo studioso ritiene che il dipinto, per quanto voluto dai responsabili dell’oratorio della Madonna dei Tre Fiumi, fosse destinato fin dall’origine all’altare maggiore della prioria di San Michele a Ronta (la chiesa vecchia), ripristinato dal priore Lorenzo Martini l’anno successivo (1635), sistemazione dalla quale fu poi rimosso nel corso del Settecento per essere spostato sul secondo altare della parere sinistra della chiesa.
Coincidenze cronologiche e iconografiche, nonché convincenti confronti stilistici e filologici hanno consentito allo studioso di collegare la pala al documento succitato, di riconoscerne pertanto l’autore e di precisarne i contorni storici, legati all’epidemia di peste.
Il dipinto (olio su tela di ragguardevoli dimensioni, misurando cm. 289×203) raffigura, in alto a sinistra, la Madonna col Bambino in gloria tra le nubi nere e tempestose, circondata da angeli, mentre, in basso si vedono i santi Antonio da Padova, Sebastiano, Rocco, Donato e Michele Arcangelo. Al centro, tra i due gruppi di santi, si scorge un ampio paesaggio, al centro del quale è raffigurata una piccola chiesa con facciata a capanna e dotata di uno svettante campanile, facilmente riconoscibile nella già citata chiesa parrocchiale di San Michele.
A conferma di quanto detto, la lettura iconografica del dipinto consente di riferirlo, senza dubbio, ad una epidemia o, comunque ad un evento calamitoso: infatti, la Vergine, dal volto dolce e sereno, che sembra sostenere non senza difficoltà un dinamico e scattante Bambino, appare, come detto, assisa sopra delle nubi scure, segno della collera divina, che, si riteneva, avesse scatenato l’epidemia per punire gli uomini dei loro peccati e i quattro santi raffigurati nella parte inferiore del dipinto mostrano atteggiamenti di preghiera e implorazione, poiché svolgono il ruolo di intermediari e intercessori per l’abitato di Ronta, peraltro identificabile simbolicamente nella rappresentazione piuttosto fedele della vecchia chiesa di San Michele.
I quattro santi, infatti, svolgono un ruolo particolarmente significativo e tutti, ad eccezione di San Michele Arcangelo, erano tradizionalmente invocati in occasione di pestilenze e calamità: Sant’Antonio da Padova, il santo taumaturgo per eccellenza, oltre ad essere un santo molto popolare, godeva di una particolare devozione proprio a Ronta, dove esisteva una compagnia a lui intitolata ed i cui abitanti gli si erano rivolti anche in occasione del terremoto del 1542. Poi San Donato, riconoscibile nella bellissima figura del vescovo rivestito di un ricco piviale dipinto dietro l’arcangelo, a sua volta titolare di una compagnia laicale, pertanto oggetto di una intensa devozione nel paese, ma che nella devozione popolare era anche invocato contro le malattie e le pestilenze. Infine i due santi Rocco e Sebastiano, raffiguranti sul lato sinistro del dipinto, anch’essi direttamente riconducibili all’epidemia di peste perché erano invocati contro le pestilenze e le malattie in genere: mentre Sebastiano è dipinto nella tradizionale iconografia col dorso nudo e trafitto dalle frecce del martirio e caratterizzato da un delicato volto giovanile, come il santo patavino a lui prossimo, Rocco mostra la piaga sulla gamba ed è rivolto direttamente verso lo spettatore indicando nel contempo la Vergine e volendo con ciò ricordare a chi era dovuta la fine del contagio e la salvezza ottenuta dai fedeli. Il santo, dipinto con notevole maestria, leggibile nel bellissimo volto, di una elegante nobiltà e nella bronzea plasticità della resa della figura, costituisce uno dei brani più felici del dipinto.
La presenza poi dell’atletica e vigorosa figura giovanile dell’arcangelo Michele si spiega facilmente, essendo il santo titolare della chiesa parrocchiale, nonché patrono del paese. In questa scena, con un gesto elegante della mano sinistra indica i devoti fuori del quadro ed in preghiera alla intercessione della Vergine
Il dipinto si qualifica quindi come un vero e proprio ex voto commissionato e realizzato in segno di ringraziamento perenne nei confronti della Vergine, alla quale i rontesi attribuivano la fine del contagio e la protezione a loro accordata durante il suo imperversare.
La tela, non firmata e non datata, è stata assegnata alla mano di Lorenzo Lippi non solo in base alla succitata documentazione ma anche per via stilistica, dati gli evidenti legami con altre sue opere coeve, ivi compresi alcuni Apostoli e Cristo benedicente realizzati per la compagnia della Madonna della Neve a Vaglia qualche anno prima (1628).
Lorenzo Lippi (Firenze, 1606-1665) è stato senza dubbio uno dei più significativi esponenti del Seicento fiorentino per merito della qualità esecutiva delle sue opere, e della capacità di reinterpretare le suggestioni e i suggerimenti dei maestri a lui contemporanei e precedenti in sintonia con la sua sensibilità. La sua importanza, nel quadro della pittura fiorentina del suo secolo è dimostrata anche dalla presenza di suoi lavori in alcuni dei più importanti collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero, nonché in numerose chiese toscane. Formatosi presso la bottega di Matteo Rosselli, ai cui modi rimase fedele a lungo, si avvicinò poi alla devota semplicità derivata dallo studio di Santi di Tito, abbracciando quindi una sorta di elegante recupero della sobria tradizione tardocinquecentesca con intenti didascalici e morali. Fu anche un fine letterato, autore del poema eroicomico Malmantile racquistato, rivisitazione giocosa della tassesca Gerusalemme liberata.
Pittore prolifico, fu attivo anche per le chiese mugellane: oltre al dipinto di Ronta (1634) e la serie degli Apostoli di Vaglia (1628), ha lasciato opere anche a Dicomano (Immacolata Concezione Santi, 1662, nell’oratorio di Sant’Onofrio), nella chiesa di San Martino a Corella (Santa Caterina d’Alessandria, firmata e datata 1629), e nella chiesa del monastero camaldolese di Luco di Mugello, dove eseguì uno smagliante e delicato Volto di Cristo (1632), ancora fortunatamente in loco, anche se non nella collocazione originale.
Il dipinto di Ronta appartiene alla fase giovanile del Lippi, appena uscito dalla bottega del Rosselli, che tuttavia si mostra già artista maturo e nel pieno possesso di tutti i suoi mezzi espressivi. L’impaginazione complessiva della scena, la solenne e statuaria monumentalità delle figure, la vivace gamma cromatica e i morbidi impasti dei colori rimandano certamente all’esempio del Rosselli, così come alcuni indugi su sfumature e morbidi chiaroscuri sembrano risentire dei modi del Furini (che, detto per inciso, proprio in quegli anni – più precisamente dal 1633 – era priore presso Sant’Ansano a Montaceraia). Notevoli sono anche l’esattezza nella definizione dei dettagli, lo studio della calda luce che esalta le figure e la capacità di rappresentare i moti spirituali dei personaggi rappresentati, in cui l’evidente patetismo e l’eleganza aristocratica esprimono la fede e la preghiera fiduciosa.
Marco Pinelli
(Foto di Massimo Certini)
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 11 aprile 2020
Articolo meraviglioso come di consueto, documentatissimo e capace di calare l’opera d’arte nel suo contesto storico.
Il professor Pinelli è una autentica punta di diamante, un
vanto ed una grande risorsa per il nostro territorio.
Aggiungo che a mio parere non è abbastanza valorizzato e che a questa cosa andrebbe posto rimedio con un incarico degno della sua statura.