Andrea Tagliaferri, l’Astronauta perduto
BORGO SAN LORENZO – Andrea Tagliaferri è il tipico ragazzo della porta accanto. Simpatico ed amichevole con tutti. Con una vita apparentemente normale, divisa tra la bottega di famiglia, l’università, due cani, la fidanzata e la figlia. Ed una grande passione per la scrittura che lo ha portato prima ad aprire un blog “L’astronauta perduto” e poi a scrivere un libro omonimo, oltre a tanti altri progetti che lo hanno portato anche sulla strada de “Il Filo”, dove oggi si racconta.
Quando e come è nata l’idea di questo libro? La bozza del libro è del 2012, poi la vita mi ha portato a dover interrompere questo progetto, o comunque a lavorarci saltuariamente. Finché non sono riuscito a trovare un equilibrio per poter rimetterci le mani in maniera seria e concentrata. Però i contenuti rimangono sempre di qualche anno fa. Ora non lo riscriverei così.
Come mai? Perché io, e di conseguenza la mia scrittura, sono cambiato col tempo. Rileggendolo vedo uno stile un po’ elementare…però va bene, ancora mi ci ritrovo. A volte mi vergogno anche un po’ del contenuto del libro che risulta a tratti volgare.
Di cosa parla? La storia di un ragazzo che lavora, studia, è fidanzato ed è un po’ perduto perché cerca se stesso. E prova a darsi delle risposte sulla vita, sull’amore, sulle cose che arricchiscono la vita dell’uomo. È “doppiamente perduto” come si vedrà nel corso della storia,. Nella prima parte perché ha tutte le caratteristiche sia dell’adolescenza che dell’individuo post moderno con punti di riferimento di cui mette in dubbio la stabilità, come il lavoro, la fidanzata, la famiglia….È un classico adolescente, e forse per questo non mi ci ritrovo neanche più, perché è parecchio adolescenziale. Poi si perde perché, dopo un incidente, il suo fisico non gli permette più di affrontare la vita come un tempo. Però, questo gli serve per ricostruire la sua vita ed i punti di riferimento di cui lui dubitava diventano il punto di partenza per una nuova vita. Passando da una “fase onirica” durante il coma in cui immagina una vita totalmente diversa, anche folle se vogliamo.
Quanto è autobiografico? Gli spunti ovviamente sono presi dalla realtà, riletta con uno sguardo romanzato in cui mi abbandono alla finzione. La base comunque è reale.
Perché è un astronauta? Riprendo il titolo del blog che ho aperto nel 2011. Mi ero immaginato come un astronauta perduto nell’etere e quindi libero di pensare e dire quello che mi pareva. Il blog l’ho sempre immaginato come un soliloquio, pieno di riflessioni, poesie e racconti come se fossi solo, allo specchio. Nonostante, poi, sia nato dalla necessità di confrontarmi con qualcuno è comunque rivolto a me stesso. Uno scambio costante tra interno ed esterno.
Dai l’idea, quindi, di aver passato un periodo di solitudine. Io credo che la visione dell’individuo di questi tempi sia di essere un po’ perduto che cerca punti di riferimento che spesso non trova. Ti rendi conto di essere solo al di là delle amicizie, della famiglia e dell’amore. E parte la necessità di fare un percorso di scoperta personale che credo sia necessario.
A chi ti sei ispirato? Alle letture di qualche anno fa, della Beat Generation, quindi Kerouac, Miller, Fante…tutti personaggi che in qualche modo mi hanno influenzato con la loro scrittura rapida e diretta. Alla fine la Beat è una generazione di perduti…Ed io per un certo periodo mi sono sentito così, e forse nel profondo mi ci sento ancora. Wallace è un altro scrittore che mi ha influenzato tanto. Partendo da fatti stupidi e banali e finire a parlare di cose più profonde.
Qual è il messaggio che vuoi trasmettere? Non lo so. In realtà dentro ci sono tante cose. È un romanzo pop, accessibile a tutti e diretto a tutti. Io ne riconosco la struttura che è filosofica, ogni capitolo ha in sé delle chiavi per aprire alcuni panorami. Inoltre in tutto il libro c’è una costante ricerca ed un confronto con Dio. Però il messaggio che voglio lasciare è quello di prendere la vita con più calma. Nella prima parte il protagonista fa tante cose, con superficialità. Ecco, l’invito è non concentrarsi tanto sulla meta ma di gustarsi il paesaggio.
Credi di averlo imparato, tu? Sì, perché in realtà per scrivere un libro ci vuole tempo, pazienza calma e noia, a volte. Insomma, spero di averlo imparato visto che questo è un monito che rivolgo anche a me stesso che, spesso, dimentico. Sicuramente però l’arrivo di una figlia ti fa apprezzare tantissime cose.
Irene De Vito
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 24 maggio 2018
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