La complicata storia del nostro Appennino
MUGELLO – Noi oggi vediamo un Appennino tutto verde e coperto da un manto boschivo pressoché continuo e frequentemente molto denso. Si sarebbe portati a pensare che sia sempre stato così. La verità invece è molto diversa perché il manto boscoso odierno si è ricostituito solo negli ultimi 50-60 anni ed è ancora in fase di crescita. Com’era prima il nostro Appennino?
Per ricostruirne la storia occorre andare indietro, ai tempi del Granducato di Toscana. Finché furono i Medici a governarlo rimase in vigore una legge che impediva il taglio del bosco fino alla distanza di un miglio dal crinale. Ovviamente, come tutte le leggi, veniva spesso violata oppure venivano concesse deroghe, ma nell’insieme la norma aveva garantito una sufficiente salvaguardia dell’ambiente. Sotto questo miglio c’era la fascia dei castagneti, che garantivano la sopravvivenza alle popolazioni con la farina di castagne per l’alimentazione invernale. Le singole comunità erano rette con statuti che regolavano il pascolo, il taglio, la raccolta della legna e la semina dei grani in terreni che venivano gestiti in comune. In qualche caso persino i mulini erano della comunità. Erano in vigore i cosiddetti “usi civici” locali, che rispondevano alla necessità di garantire a tutti la sopravvivenza, tenendo conto di una economia che era aperta solo alle zone vicine di fondovalle, viste le limitate possibilità di spostamento e la difficoltà di approvvigionarsi all’esterno.
Con l’amministrazione lorenese tutto cambiò, sulla spinta delle idee illuministiche che auspicavano una forte liberalizzazione dell’economia. Si abolirono in gran parte gli usi civici, si vendettero le terre demaniali e quelle di molti Enti ecclesiastici e, nel 1780, si abolì la legge di divieto del taglio presso il crinale.
Bisogna considerare che in quel periodo era in atto la piccola glaciazione e infatti un viaggiatore francese dell’epoca (1762) scriveva che la montagna tra Firenze a Bologna era di solito coperta per 5 mesi l’anno da 4-5 piedi di neve. In queste condizioni è evidente che vi fosse una fortissima necessità di legna per scaldarsi e si cercasse di acquisire nuovi terreni per seminare e così integrare l’alimentazione con buoni cereali. Si manifestava poi un costante aumento della popolazione: per esempio Vicchio passò dai cinquemila abitanti del 1745 ai 6.400 del 1784 fino ad arrivare ai circa novemila nel 1833.
In pratica in montagna la liberalizzazione significò dare mano libera a tutti. I boschi vennero tagliati in massa per far legna e per poter coltivare il terreno così liberato. Si generalizzò la pratica del ronco, che consisteva nell’abbattimento del bosco col recupero della legna e l’abbruciamento sul posto della frasca e di tutti i residui vegetali. Il terreno, concimato dalla cenere, veniva poi seminato a grano e per qualche anno (di solito tre) dava un discreto raccolto. Poi succedeva l’inevitabile: il terreno scoperto e lasciato alle intemperie veniva dilavato ed eroso, lasciando scoperta la roccia, per cui ci si spingeva più in là, per un nuovo ronco. Così quasi tutto il nostro Appennino divenne una distesa di montagne brulle e pietrose, prive o quasi di copertura vegetale.
Le ripercussioni sulla popolazione, nel frattempo ancora aumentata, furono un generale impoverimento provocando un forte aumento dell’emigrazione, soprattutto stagionale, verso luoghi dove si poteva trovare qualche lavoro. A testimonianza di tutto questo ci restano le cartoline dell’inizio del ‘900, che ci mostrano un Mugello, spesso definito “pittoresco”, fatto di montagne nude e di povera gente malvestita.
La montagna era quindi una realtà ben diversa dal fondovalle e dalla collina, tutte organizzate con il sistema della mezzadria. Anche sui monti vennero costituiti poderi mezzadrili ma la situazione dei coloni era assai diversa da quelli delle altre zone. In ogni caso i dissodamenti e i disboscamenti irrazionali intensificarono la degradazione progressiva della montagna, pur con ritmi diversi da quelli che abbiamo prima descritto.
Solo alla fine dell’800, con la lenta attuazione di una nuova legge forestale (1877) iniziarono le prime opere di rimboschimento ad opera del Corpo Reale Forestale: nel 1890 intorno al passo della Futa (126 ettari) e nel 1895 a quello del Giogo (114 ettari). Per quanto riguarda i privati si distinsero due stranieri: lo svizzero Edmond Dapples nella tenuta di Grezzano a Borgo San Lorenzo e la famiglia di Pietro Peratoner (originaria del Trentino, allora appartenente all’Austria-Ungheria) nella tenuta di Poggio Bartoli a Vicchio. Nel 1914 Dapples aveva già realizzato il rimboschimento di 300 ettari di montagna (un tempo ridotta a una vera e propria pietraia) mentre gli eredi Peratoner avevano dotato di giovani piante una vasta area intorno al monte Veruca. Queste iniziative erano decisamente anomale rispetto alla generale mentalità dei possidenti toscani, che consideravano l’investimento nei boschi un ingiustificato immobilizzo di capitali, dato che l’uso dei terreni risultava compromesso per tempi indefinibili.
Va detto che negli anni successivi alla Grande Guerra vi fu un’inversione di tendenza e un generale incremento dei rimboschimenti. Ma contemporaneamente, cominciò a manifestarsi, seppure in sordina, l’esodo della popolazione montana che poi divenne una valanga poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per rimanere all’esempio di Vicchio: si registrano in questo Comune 12.335 abitanti nel 1920, 10.241 nel 1940 (il primo lieve calo), 11.148 nel 1945, 10.827 nel 1950, 9.679 nel 1955, 8.306 nel 1960 , 6.627 nel 1965. In vent’anni la popolazione si è quasi dimezzata, ma è stata soprattutto la montagna a subire l’abbandono perché la gente si è trasferita nei centri dove l’industrializzazione offriva posti di lavoro fissi o, comunque, con un reddito immediato molto superiore a quello dei poderi montani, per di più con un orario di lavoro che non durava più “da sole a sole”, senza contare quanto fosse ormai insopportabile l’isolamento sociale dei montanari.
I terreni abbandonati ridivennero selvatici, le case abbandonate si trasformarono spesso in ruderi, come Campiglioni, di cui oggi si fatica a distinguere le macerie (ho conosciuto chi vi abitava). Non c’è stato alcun bisogno di “rewilding” per ottenere il paesaggio attuale, se si escludono i rimboschimenti. Una volta che il manto vegetazionale è ritornato a ricoprire il suolo sono tornate le specie animali, prima il capriolo, poi, quando il bosco è diventato più maturo, il cervo; cinghiali e daini sono stati reintrodotti intorno agli anni ’60 nelle zone demaniali, per poi estendersi anche al di fuori. Gli animali, del resto, non sanno distinguere i confini amministrativi. Il ritorno del lupo è la naturale conseguenza di tutto ciò.
Paolo Bassani
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 30 Maggio 2021