AUTUNNO
Anche l’autunno, come la primavera, è una stagione di presagi: presagi, quella, di nascita e fioritura; presagi, questo, di quiete e di fine. In entrambi è una certezza che precede l’evento, un segno che precede e nutre la realtà. In entrambi il momento più intenso è quello dell’annunzio.
L’annunciazione autunnale avviene alla fine d’agosto o ai primi di settembre, quando la violenza dei grandi temporali ha fiaccato la violenza del fuoco che divorava la terra. Ora la terra giace sfinita e madida come un ammalato che sia stato abbandonato di colpo da un’altissima febbre. Vi è refrigerio nell’odore della prima pioggia sulla polvere, sulle crepe arse, sulla magra erba superstite. Cieli di luce velata fugano il delirio.
Il demone meridiano dell’anno è stato ancora una volta esorcizzato e l’anima si leva attonita a riesplorare i propri confini.
Luce di settembre, la più ineffabile luce dell’anno. Tenera e irraggiungibile. Predilige i monti, dalle cui vette più sensibilmente s’irradia; si slancia ad arco sopra le pianure; perfino nei rigagnoli di cielo che s’insinuano fra i tetti ravvicinati delle città mette uno struggente richiamo d’altezza.
Luce che è insieme presenza e memoria, ed in ciò si differenzia dalla luce altrettanto tersa di marzo. La purezza di marzo nasce soltanto dall’attesa, la purezza di settembre nasce dalla consapevolezza e dalla rinunzia.
La terra ha nutrito i suoi frutti e si prepara al distacco.
Questa preparazione è indice, quanto i frutti stessi, della maturità: forse ne è addirittura la più intima essenza.
È il momento di un’alta pausa, di un silenzioso equilibrio, come nell’immagine zodiacale della Bilancia, sospesa fra le stelle, prima che uno dei suoi piatti trabocchi. L’uomo di raccoglie in se stesso prima di accingersi a qualsiasi altro raccolto.
È questo il primo e forse il più prodigioso volto dell’autunno.
Il secondo autunno è quello della vendemmia e della vendemmia e della svinatura, dello scoperto inventario dei frutti dell’anno.
La terra è tornata in primo piano, dopo quell’indicibile predominio del cielo. Ora è lei la depositaria della luce, mentre l’aria gradatamente si oscura. È come se dal suolo risalisse tutta la luce assorbita nei mesi estivi: luce divenuta colore nel viola cardinalizio dell’uva, nel marrone rossastro delle zolle smosse, nell’oro e nella ruggine di cespugli e fogliami. Accanto ai colori, e affini ai colori, gli aromi vengono prodigati senza limiti, in una ricchezza che sembra solo impaziente di esaurirsi.
Si attua la grande legge del dono: prima viene ceduto il superfluo, poi il necessario, poi tutto. Non cadono solo i frutti, cadono anche le foglie che li precedettero e li ripararono. Resterà un mondo di pure forme, di architetture senza ornamento: l’osso e la pietra, capaci di resistere all’ultima prova. Ed il seme, a cui ora si prepara il letto, conoscerà il mistero della morte, prima del mistero della nascita.
Viene il terzo autunno: di torrenti che scrosciano dalle montagne senza freno, di diluvi che rigano il cielo da sponda a sponda, di mota e di pozzanghere dove prima turbinava la polvere.
Acqua furiosa come fu furioso il sole, impazzisce finché il gelo non venga ad imbrigliarla insieme alla terra sua vittima.
È l’autunno del disfacimento, in cui l’uomo riscopre la sua atavica parentela col fango gorgogliante fra i sassi e si curva sulle tombe e sente che nessuna estate di San Martino col suo effimero tepore potrà fargli risalire la china, trattenere l’avanzata dell’unico inverno.
La primavera, la speranza vanno cercate altrove: solo lo spirito può farle germogliare sulla nudità di questo mondo umiliato.
Non a caso in questo periodo la Chiesa inizia la Liturgia dell’Avvento.
Mi sono sempre sentita vicina all’autunno in ciascuno dei suoi tre volti. La contemplazione di settembre, l’offerta e il distacco di ottobre, l’umiliazione di novembre, mi hanno aperto prospettive che sembrano moltiplicarsi, via via che la mia stessa vita s’inoltra nel proprio autunno. Nella mia stagione come in quella dell’anno, rivelazioni si succedono ed integrano; e al loro termine mi affascina un senso di pace che supera il senso di rinunzia.
Era forse questa la stagione che attendevo da sempre, verso la quale m’indirizzavo con una costanza segreta? Ora non saprei volgermi con rimpianto verso la primavera che mi tormentava con l’acuità delle sue stesse speranza, e neppure verso l’estate abbagliata dai suoi ardori. Meglio che il corso si compia, che ogni riposto significato affiori.
E non importa se il mio raccolto è stato tanto scarso perché so che l’immenso frutto dell’umiltà potrà colmare le mie mani vuote.
Margherita Guidacci
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 Novembre 2021