Formazione marnoso-arenacea dell’Alto Mugello, tracce fossili e valcari a Lucina
Formazione Marnoso-arenacea

Lastra arenacea con impronta di echinide irregolare (“riccio di mare”), Miocene Medio. Poggio di Fantelluccio
Il substrato roccioso di gran parte dell’Appennino tosco-romagnolo, quindi della media ed alta vallata del Senio, è costituito da un’enorme pila di strati spessa complessivamente quasi 3 km. Le rocce prevalenti, l’arenaria e la marna (rispettivamente sabbia e fango consolidati da carbonato di calcio), determinano l’appellativo di Formazione Marnoso-arenacea (FMA) dato a questo imponente corpo geologico la cui origine si deve alla sovrapposizione di migliaia di particolari “frane” sottomarine di sedimento misto ad acqua note col nome di correnti di torbida. Queste, nel corso del Miocene medio-superiore (tra circa 16 e 7 milioni di anni fa), andarono depositandosi su fondali marini confinati in ampie fosse allungate con andamento grosso modo parallelo a quello dell’attuale crinale appenninico. A causa dei normali processi di decantazione ogni singolo strato torbiditico risulta composto da una “coppia” di strati rocciosi differenti: uno arenaceo alla base, più grossolano, che sfuma gradualmente in uno marnoso verso l’alto, più fine (gradazione).
Tra un evento di torbida e il successivo potevano trascorrere anche migliaia di anni, durante le quali decantavano sui fondi abissali dei finissimi fanghi chiari (emipelagiti) ricchi di microfossili planctonici.
L’analisi della composizione mineralogica delle arenarie e delle antiche correnti sottomarine (registrate nelle cosiddette impronte di fondo) ha permesso di stabilire che i detriti trasportati dalle correnti di torbida erano forniti prevalentemente dall’erosione della “neonata” catena alpina, già emersa. Non mancavano però, in subordine, strati originatisi da aree diverse come il fianco sud-occidentale del bacino (torbiditi ibride tipo “strato Contessa”) oppure la sua estremità sud-orientale (es. torbiditi calcaree tipo “Colombina”), prodotte dall’erosione delle piattaforme carbonatiche dell’Italia centrale (es. Gran Sasso).
Tracce fossili
In generale, le rocce di ambiente marino profondo sono solitamente assai povere di resti di antichi organismi e i depositi torbiditici della F.ne Marnoso-arenacea (FMA) non fanno eccezione.
In tali sedimenti assumono perciò una grande rilevanza le tracce fossili (o icnofossili) dell’attività biologica di svariati tipi di organismi che, per mancanza di parti dure o per condizioni inadatte alla loro fossilizzazione, non si sono preservati: in pratica, quelle che erano piste di spostamento o tane scavate nei soffici fondali marini da molluschi, “vermi”, crostacei, celenterati o echinodermi si sono potute talora conservare sotto forma di impronte o calchi naturali di arenaria o marna (in origine, sabbia e fango). Siccome risulta quasi impossibile identificare l’organismo che ha prodotto un certo tipo di traccia, gli icnofossili vengono classificati basandosi sul loro significato etologico, cercando cioè di riferirli al tipo di attività biologica che li ha prodotti. Dei 9 principali gruppi individuati dagli scienziati, 5 risultano ben rappresentati negli strati della FMA:
“strutture di abitazione”, ovvero cunicoli o tane permanenti (es. Ophiomorpha) di animali marini endobionti (bivalvi, vermi, crostacei, ecc.) che si procuravano il cibo filtrando l’acqua per mezzo di organi specializzati;
“strutture di nutrizione”, gallerie prodotte da animali prevalentemente detritivori – in gran parte vermi marini – per nutrirsi delle sostanze organiche contenute nei sedimenti in cui si trovavano rintanati (es. Zoophycos);
“tracce di pascolo”, piste spesso meandriformi lasciate da organismi – principalmente molluschi, anellidi e artropodi – che si spostavano sulla superficie del substrato in cerca di nutrimento (es. Helmintoraphe);
– “strutture agroalimentari”, particolari sistemi di piste e di tane disposte secondo un modello geometrico più o meno regolare prodotte probabilmente da organismi che le percorrevano per cibarsi dei microrganismi intrappolati o attirati dal muco di rivestimento delle gallerie stesse (es. Paleodictyon);
– “tracce di spostamento”, vale a dire solchi, piste e gallerie (con andamento rettilineo o lievemente sinuoso) lasciate dal passaggio di animali che si spostavano sulla superficie o all’interno del fondale marino (es. Scolicia, prodotta da echinoidi irregolari).
Calcari a Lucina
I depositi torbiditici dell’Appennino romagnolo, tendenzialmente assai poveri di macrofossili, a volte inglobano sporadici blocchi calcarei – spesso riccamente fossiliferi – definiti “Calcari a Lucina” (CAL) per la caratteristica presenza di vistosi bivalvi affini al Genere Lucina. La loro genesi, assai dibattuta in passato, è stata recentemente assimilata alle ricche comunità biologiche situate nei fondali oceanici in prossimità di emissioni fredde di fluidi (cold seeps), soprattutto metano (CH4) e idrogeno solforato (H2S).
Si è scoperto che queste particolari “oasi di mare profondo” basano le loro catene alimentari sulla chemiosintesi effettuata da particolari batteri metano-ossidanti: poiché l’energia necessaria per costruire materia organica viene ricavata da reazioni chimiche ossidative piuttosto che dalla luce solare con la fotosintesi, esse possono svilupparsi anche a migliaia di metri di profondità (fino a – 7.000 metri nella Fossa del Giappone!). In aggiunta, il metano che filtra attraverso il sedimento ha un’azione mineralizzante sullo stesso fornendo per ossidazione il carbonio necessario per la precipitazioni diretta di carbonati nei paraggi dell’emissione gassosa.
Inoltre i batteri, oltre a formare colonie a vita libera, sono presenti come simbionti nelle branchie di varie specie di molluschi specializzati assai simili a quelli presenti allo stato fossile nei CAL dell’Appennino: questo e molti altri indizi fanno ritenere tali rocce gli analoghi miocenici delle “oasi di mare profondo” dei moderni fondali oceanici. Infine la distribuzione apparentemente casuale dei CAL sarebbe da porre in relazione a fuoriuscite locali di metano “spremuto” dalla FMA soprattutto durante le principali fasi dell’orogenesi appenninica (Miocene medio-superiore, tra 14 e 7 milioni di anni fa). Nel territorio palazzuolese vi sono 2 principali affioramenti di questa tipologia:
a) CAL di Poggio Cavalmagra, i più antichi del settore in esame (Langhiano superiore, circa 15 milioni di anni), inglobati in un orizzonte caotico di frana sottomarina spesso 60-80 m ed esteso per una trentina di km;
b) CAL di Le Colline/Gruffieto e dei Prati Piani/Monte Faggiola (Serravalliano inferiore, circa 13 milioni di anni), entro la successione prevalentemente marnosa di una frana sottomarina di 40-50 m di spessore e 50 km di estensione.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – maggio 2024
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