La novella degli andazzi
DICOMANO – Alla fine degli anni Settanta frequentavo assiduamente Dicomano e conoscevo bene la campagna circostante. Per forza, la mia fidanzata stava da quelle parti, che dovevo fare, appena potevo correvo a trovarla; avrei voluto vedere voi al mio posto.
Spesso mi capitava dunque di passare in una zona collinare a nord del paese chiamata “le vigne” con viti, alberi da frutta e campi in parte già abbandonati. I miei interessi allora erano ben altri e non sto certo qui a raccontarli; mai però avrei osato immaginare che proprio una di quelle vigne (o meglio una sua trisavola) potesse essere protagonista di una meravigliosa novella del Trecento scritta in volgare da Franco Sacchetti.
Per chi non lo sapesse il Sacchetti fu un letterato vissuto a lungo nella Firenze del tempo famoso soprattutto per una raccolta, il Trecentonovelle appunto, che s’inserisce perfettamente a livello logico e stilistico tra il Decameron del Boccaccio e le Facezie del Piovano Arlotto. Uomo di natura pratica e scherzosa, compilò le novelle nell’ultimo decennio di vita probabilmente per allietare gli amici; l’opera appare incompiuta e a noi ne sono arrivate 223.
In mezzo a piccoli racconti, quasi tutti ambientati a Firenze, di stampo morale e scritti in volgare, tra scherzi e burle, dediche a personaggi famosi e così via il Sacchetti riuscì a fornire un vivace spaccato dei costumi e della vita sociale del tempo. Insomma, si tratta di una bella e colorita testimonianza. Ma torniamo alla novella prima citata ambientata in Mugello e in particolare a Dicomano e dintorni; figuriamoci se me la facevo scappare.
Dunque, cari amici c’era una volta intorno al lontano anno di grazia 1350 un contadino dicomanese sveglio e ben agiato che, almeno a quello che mi hanno riferito, pare si chiamasse Cenni; possedeva molti terreni e alcune proprietà arrivavano fino alla zona di Vicchio. In particolare, l’uomo andava fiero di una bellissima vigna che curava come fosse una figlia. O forse meglio.
Purtroppo c’era un esponente arrogante della famiglia Medici, tale Faraone il quale, forse condizionato dall’ingombrante nome di battesimo, ci mise gli occhi addosso e se ne appropriò senza colpo ferire. Il mugellano ci rimase malissimo, ma non si perse d’animo. Pensò dunque di recarsi a Firenze da Francesco de’Medici per lamentarsi del torto subito da quel suo prepotente parente; Francesco, forse da identificarsi nel figlio di Averardo II (che fu anche gonfaloniere) e Mandina Arrigucci, era in quel momento il figlio maggiore di un casato mediceo ancora non al potere e impegnato in mercatura e usura. Così una bella mattina il Cenni montò sul suo scalcinato ronzino e da Dicomano si spostò fino a Firenze; giunto davanti alla casa di Francesco con un cavallo alquanto provato, chiese udienza.
Poi, senza mostrare nessun timore reverenziale, esordì così: “Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a pregarvi per l’amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere. Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se da voi non sono aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la dee avere, io voglio che l’abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapere, che sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi, e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che si guastano tutti e’ vini, quando è andazzo che in poco tempo s’uccideranno molt’uomini, quando è andazzo che non si fa ragione a persona: e cosí quando è andazzo d’una cosa, e quando d’un’altra. E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si pote far riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo’ pregare per l’amor di Dio, è questo: che s’egli è andazzo di tòr vigne, che il vostro consorto s’abbia la mia vigna segnata e benedetta, però che contro all’andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta”.
Francesco de’ Medici rimase visibilmente impressionato dalla sensatezza di questo piacevole e fermo discorso; gli “andazzi” per Cenni erano come quei “destini” contro i quali l’uomo nulla può fare, ma ciò non poteva certo valere per il furto di una vigna. Il Medici domandò al contadino come si chiamasse e poi rispose: “Buon uomo, il mio consorto con teco non potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna tua non ti sia tolta”.
Chiese di aspettare un attimo e mandò a chiamare altri esponenti del casato; quando arrivarono fece ripetere a Cenni il discorso. Furono tutti d’accordo che i Medici non avrebbero permesso quell’andazzo che nuoceva pure ai loro interessi e alla fama che stavano faticosamente costruendo in città. Perciò andarono tutti dal parente riportando “la ragione degli andazzi” cui non si poteva dar torto e che era quasi meglio di qualsiasi legge scritta. Convinsero questo Faraone del suo errore e gli ripresero la vigna facendosi promettere che non avrebbe tentato di riaverla; poi la restituirono al contadino. Dalla novella si possono dedurre tante informazioni preziose: dalla furbizia contadina celebrata fin dall’antico, al profondo senso del destino da sempre caratteristico della nostra cultura rurale, al senso di giustizia che già aleggiava nella città del giglio.
Soprattutto, esce fuori con chiarezza il profondo legame tra i Medici e semplici abitanti del contado mugellano, argomento ampiamente trattato nel mio ultimo libro “I segreti del Mugello mediceo”. Insomma, grazie al sensato discorsetto del non tanto ingenuo Cenni, finalmente l’agognata vigna ritornò al suo padrone. E guarda un po’ che casino dovette fare per potersi bere in santa pace qualche buon fiasco di vino!
Fabrizio Scheggi
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 5 marzo 2023