Giovanni Giuliani, il poeta satirico di Firenzuola

Veduta parziale della casa del poeta
FIRENZUOLA – Un personaggio insolito si affaccia dalle nebbie del tempo: è Giovanni Giuliani. Fu poeta soprattutto satirico, fatto assai insolito in questi monti dell’Alpe Fiorentina; su di lui si conosce solo la testimonianza di don Stefano Casini nel suo “Dizionario biografico geografico storico del comune di Firenzuola”. Non pubblicò mai niente, i manoscritti delle sue poesie furono affidati, dalle figlie Teresa e Maria, a detto don Stefano che li depositò nella biblioteca del Seminario del paese e che, con il bombardamento del 1944, andarono irrimediabilmente perduti privandoci della possibilità di conoscere a fondo questa interessante personalità.

Chiesa di Rapezzo
Nacque nel 1800 a Razzo nei pressi di Rapezzo, nella villa che la famiglia qui possedeva. Compì i primi studi presso il pievano di Camaggiore, nel 1817 fu iscritto al seminario di Firenzuola, riaperto dopo la chiusura del periodo di occupazione napoleonica. Nel 1827 la famiglia venne ad abitare nel castello di Firenzuola, la vita da “cittadino” era assai più agevole e comoda di quella della campagna. Qui passò le sue giornate tra svaghi e ozi limitandosi a letture solo per motivi di svago. Ben presto si accorse che “coll’essersi impancato a cittadino finiva col restar senza un quattrino”; nonostante questa sua apprensione non si sognò mai di cercare una qualche occupazione, dedicando il suo tempo a comporre poesie ed in vani divertimenti. La sua vena era talmente forte che la utilizzava in ogni occasione: se doveva scrivere una lettera la scriveva in poesia, se doveva descrivere un fatto o scrivere per affari o anche per condoglianze, scriveva in poesia. Aveva tanta facilità poetica che non si preoccupò nemmeno di continuare gli studi per affinare la sua tecnica “In tutti i suoi scritti buttati qua e là, vediamo lampeggiare il genio, v’è originalità e creazione, naturale l’epigramma e il riso si muove spontaneo, ma non vi troviamo il sapore dei classici, perché non si poté piegare a studiarli”.

Cappella della Madonna del Carmine dove era conservata la lapide commemorativa del poeta
Sposò Anna Berti, figlia del cerusico di Firenzuola, dalla quale ebbe due figlie: Teresa e Maria. Intorno al 1848 , in pieno fermento risorgimentale, fu ospite a Firenze dell’avv. Salvagnoli, durante la lettura pubblica di alcuni sonetti, in piazza Signoria, ricevette le congratulazioni di Giuseppe Giusti che gli disse “ella è nato poeta, studi Dante, si dia allo studio di Dante…”. Il nostro , il consiglio, non lo seguì e continuò a poetare come gli veniva. Ricoprì anche la carica di gonfaloniere del Comune di Firenzuola. Si dice che invecchiando, preso da un gran senso religioso, gettasse alle fiamme la maggior parte dei suoi scritti, per timore che non fossero abbastanza castigati. Morì nel 1861, di lui rimaneva un’epigrafe nella cappella della Madonna del Carmine nei pressi di porta bolognese che diceva:“Giovanni Giuliani, per cristiana pietà, commendevolissimo, poeta facile, arguto, spontaneo, celebre nell’Accademia degli Incamminati, del Comune di Firenzuola gonfaloniere e rappresentante integerrimo, morto il 15 giugno 1861 nell’ anno suo LXI, resta nella memoria degli amici, dei parenti, della sua seconda moglie Vittoria Bartolini aretina, ma oh! quanto più nel cuore delle figlie Teresa e Maria, che addoloratissime questa memoria posero”.

Chiesa di Rapezzo
Oggi la cappella è distrutta e la lapide dispersa e ogni ricordo del poeta praticamente scomparso, salvo le poche rime rimaste.
La sua poesia, anche se non supportata da solidi studi classici, è immediata e tocca direttamente il cuore dell’ascoltatore. Fa sorridere per la sua arguzia e pur nella leggerezza fa pensare anche a temi profondi. È comprensibile anche per gli spiriti semplici. È una poesia fresca lontana dai canoni delle poetiche ufficiali dell’epoca, ma che ha il sapore della campagna dell’Alpe e che si incarna, deridendoli bonariamente, nei personaggi del mondo che lo circonda. I componimenti giunti sino a noi sono spesso incompleti, tra le più rappresentative del suo modo di fare poesia ne ho scelte alcune.
Questa fu scritta in occasione dell’invio alla moglie, per la festa di Natale, di un cappellino acquistato a Firenze:
Siamo a Ceppo! Cara sposa,
Per mandarvi qualche cosa
Vi ho comprato questa Cresta,
ma chi sa se v’entra in testa?
Chi può prendersi l’assunto
Che la v’entri per l’appunto?
Dal marito, lo so bene,
Voi prendete quel che viene,
Però spero quando torno
Di vedervi tutto il giorno
Con in capo la berretta
E così bella e perfetta
Che per tutto Firenzuola
Non ci sia che quella sola.
Ma vedete, sposa mia,
Che gran sbaglio, che pazzia
Facevate a dir di no
Quando il Prete ci sposò!
Non avendo acconsentito
Di pigliarmi per marito
La fareste ora la festa
Di Natal con quella Cresta?
Col suo nastro alla scozzese
Com’è moda del paese,
Con due penne, co’ suoi fiori…
È una cresta da signori!
Questa per il passaggio della cometa Donati nel 1858:
Questa strana Cometa in ciel sereno
Quasi aureo tratto di pennel si stende
E a guisa verso noi d’arcobaleno
La formidabil coda aguzza scende.
Di fieri morbi apportatrice almeno
Deh! Non ci fosse, o di penurie orrende,
Ma se solo fra noi i governi muta,
Crepi chi non le dà la benvenuta!
Per una notificazione di Leopoldo di Lorena scriveva:
In un gran foglio a guisa di lenzuolo
Noi Leopoldo, si leggeva scritto.
E un contadin diceva: O se egli è un solo!
E un altro rispondeva: Imperesempio,
Vuol dir che Leopoldo è doppio e scempio!
A un parroco di Casetta di Tiara scriveva:
Della Casetta il Paroco
Non è di quei minchioni:
per convertire il popolo
Intima le Missioni.
I Missionari accorrono
Ed han vittoria intera,
Il popolo convertesi,
Ed ei riman qual era.
Dedicata ad un oste a cui era morta la moglie:
Ieri in sepolcro fur l’ossa riposte
D’una donna che fu moglie dell’oste:
Intanto questi fa rifar la porta,
Non fingesse la furba d’esser morta
E tornar poi di notte
A vuotargli la botte!
A Ferdinando Benelli a cui era stato concesso il beneficio ecclesiastico di Cà di Vestro:
Mi rallegro con voi, signor maestro
Che non soltanto v’hanno fatto prete,
Ma vi han dato la verga che sapete
E prescelto a pastor di Caddivestro.
Siate voi dunque vigilante e destro
Nel far del ben lassù più che potete,
Nè vi smarrite in cuor quando vedrete
L’orride gole di quel luogo alpestro.
Convertite all’amor del Redentore
E alla beata vergine Maria
Gli uomin, le donne, il popolo e il Priore.
Ma soprattutto attento a quella via,
Che non abbiate un tratto a dar di fuore
E rompervici il collo… e così sia!
Il primo maggio era natura cantare sotto le finestre del podestà, del Capitano e delle famiglie nobili e Giovanni Giuliani scriveva:
Son fugati del verno i rigori,
Fuori al Maggio donnette garbate.
Ride il cielo, ritornano i fiori,
Belle o brutte, donnette, cantate.
Sono i canti di Maggio forieri
Degli augelli nel bosco tornati,
Gli accompagnano lieti pensieri
Ed il riso de’ campi e de’ prati….
…. È la reggia del piacere
Stabilita in Firenzuola
Vengan pur bell’alme a scuola
Di letizia e d’amistà:
Piccioletta, alpestre e sola,
Desta invidia alle città.
Qui conservasi armonia,
Di qui amor giammai s’invola,
È giardino Firenzuola
Di vaghezza e di beltà:
Piccioletta alpestre e sola,
Desta invidia alle città.
In questo poemetto, purtroppo mutilo, nel quale tesse in modo scherzoso, le lodi delle castagne:
Canto l’iniquità dei contadini,
Canto della raccolta de’ marroni,
E gli sdegni del cielo alti e divini
Per la rea pecoraggin de’ padroni,
Canto alla fin di certi birichini
Che tengono di mano a’ più sciuponi,
Che par non sentan mai dire al Pievano
Esser da ladri anco il tener di mano.
Il miglior don che con paterna cura
Ci abbia dato il Signor son le castagne,
Il più dolce dei frutti addirittura
Che si possa trovar sulle montagne.
Re del cielo, al villan la scorza dura
Apritegli dal capo alle calcagne,
Che impari a questo frutto benedetto
A voler bene ed a portar rispetto.
Io mi ricordo della carestia
Quando un solo marron non si vedea.
Allora piena calcata era ognivia
Di gente che a pietà ti commovea,
Chi di ghiande, chi d’erba si nutria,
E chi a gran gridi la pietà chiedea,
Chi si trovava morto sullo strame
Finito dallo stento e dalla fame.
Non si vedeva alle feste e al mercato
Venir le campagnole in piume e in fiocchi
Con quei lor tali zerbinotti allato
A arruotarseli intorno e far li alocchi
Tanto d’aspetto il mondo avea mutato
Che avean fatto giudizio infin gli sciocchi,
Da mane a sera tutti in gran faccenda
Per procurarsi un poca di polenda.
Non si udiva pastor sul verde colle
Suonar, come usa, o zuffolo, o zampogna,
Che ad ogni festa, ad ogni riso molle
L’universal tristezza era rampogna.
Dei tristi campi per aprir le zolle
Non ha forza il villan quanto bisogna
Né a consolarlo di sue forze oppresse
Vien la speranza di futura messe.
Che come splende una notturna scena
Senza avanti sipario e senza velo,
Così ogni anno parea raccolta piena
Prometter lieto di castagne il cielo,
Ma borea, il crudo apportator di pena
L’ali battendo gli copria di gelo,
E irato Dio col folleggiare umano
Dava e toglieva colla istessa mano.
Non vedi il gran Fattore in quanta stima
Ebbe quel frutto? In prima d’una scorza
Lo vestì che ti par tirata a lima;
Poi d’un’altra più dura lo rinforza
E più grossa di questa e della prima
Ne fa una terza infin di maggior forza
Che tutta intorno ispida di spini
Par che dica: nessun gli si avvicini:
E per finire quando già si sentiva prossimo alla fine, scriveva ad un amico:
Or che la brina candida
Sopra il mio crin si posa,
Tutti dal cuor spariscono
I bei color di rosa,
I bei color che furono
Sogno de’ primi dì.
E termino con questo che fu uno degli ultimi suoi scritti:
Un altro anno di vita è già spento
E tremando lo canta il pensiero,
Del passato non resta un momento,
Il futuro è velato di nero,
E gran parte già giace sepolta
La virtù che fioriva una volta.
O miei giovani giorni che invano
Mi passate sul capo, tornate!
Col desio che vi stende la mano
Le speranze di un dì riportate
Ad estinguer nell’alma il rimorso
Che mi affligge del tempo che ho corso.
O miei giovani giorni, leggeri
Ritornate sull’orme già fatte,
Rifiorite cogli estri primieri
Queste rughe che il cuore ha contratte.
Ritornate, o miei giorni ridenti
E a partirvi movete più lenti.
Io non vissi, in un soffio la curva
Divorai della vita; implacato
Un destino, una forza m’incurva
Anzi tempo ora all’ultimo fato,
Mentre ancor mi sognavo sul mare
La mia barca a vogare, a vogare.
Ma se stolto degli anni io dispersi
Un tesoro che il ciel non ridona,
Né che può ridonar, s’io sommersi
Delle sacre virtù la corona
Senza senno nell’acque e nel fango,
Mi perdoni il Signor perché piango!
Se qualcuno poi si volesse prendere la briga di pubblicare quello che rimane delle poesie di Giovanni Giuliani, magari anche con un apparato critico, farebbe una cosa assai ben fatta, per permettere di conoscere questo poeta così lontano ma così vicino a noi.
Sergio Moncelli
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 24 settembre 2018
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