Ferruccio Ulivi
Ferruccio Ulivi (Borgo San Lorenzo, 10 settembre 1912 – Roma, 5 novembre 2002) è stato un critico letterario, accademico e scrittore italiano.
Laureato a Firenze in Giurisprudenza nel 1934, scrittore, poeta, critico letterario è stato docente di letteratura italiana presso le Università di Bari, Perugia e Roma “La Sapienza” e saggista (con importanti contributi su Manzoni [1], Tasso, Carducci, Nievo, D’Annunzio, Petrarca e Boiardo), e quella di raffinato narratore [2].
Dopo essersi formato tra il caffè letterario del circolo delle “Giubbe Rosse”, frequentato fra i molti da Montale e Carlo Bo, e numerosi altri centri culturali del tempo, ha collaborato con riviste quali Letteratura e Campo di Marte, dirette rispettivamente da Bonsanti e da Pratolini e Gatti. Nel 1941 si trasferì a Roma, dove lavorò sotto Giulio Carlo Argan al Ministero dell’Educazione Nazionale, poi Ministero della Pubblica Istruzione. Dal dopoguerra ha dedicato sempre maggiore tempo alla carriera universitaria, inizialmente a Bari, poi a Perugia e infine dal 1970 a Roma all’Università “La Sapienza”.
Sin dai primi anni ha maturato amicizie con letterati e artisti del suo tempo, tra cui Montale, Rosai, Pasolini, Gentilini e altri numerosi frequentatori dei salotti letterari di quegli anni .
Ha vissuto gran parte della sua vita a Roma, animando spesso il dibattito critico, con una particolare attenzione alla poesia contemporanea e alla letteratura del ‘500 e del ‘700. Parte della sua biblioteca, arricchita negli anni da numerose opere della letteratura italiana e straniera, dall’età classica a quella contemporanea è stata donata al Gabinetto Viesseux di Firenze, in cui è istituito a suo nome un Fondo letterario.
Gli sono stati assegnati numerosi premi letterari, fra cui il Selezione Campiello, il Basilicata, il Montefeltro e il Camposampiero.
È sepolto nel cimitero di Poggio Moiano, nell’Alta Sabina, luogo che amava e che frequentava costantemente, che alla sua figura ha intitolato l’Istituto Comprensivo.
Ha collaborato con la casa editrice Newton Compton, per la quale ha curato numerosi volumi.
- Federigo Tozzi, Morcelliana, Brescia 1946.
- Il romanticismo di Ippolito Nievo, A.V.E., Roma 1947.
- Il Manzoni lirico e la poetica del Rinnovamento, Gismondi, Roma 1950.
- Galleria di scrittori d’arte, Sansoni, Firenze 1953.
- Il primo Carducci, Le Monnier, Firenze 1957.
- L’imitazione nella poetica del Rinascimento, Morzorati, Milano 1957.
- Settecendo neoclassico, Nistri-Lischi, Pisa, 1957.
- Dal Manzoni ai decadenti, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1963.
- I poeti della Scuola Romana dell’Ottocento. Antologia, Bologna, Cappelli, 1964.
- Il manierismo del Tasso e altri studi, Olschki, Firenze 1966.
- Figure e protagonisti dei “Promessi Sposi”, ERI, Tprino 1967.
- Poesia come pittura, Adriatica, Bari 1969.
- Stile e critica. Avviamento alo studio della letteratura italiana (con G. Petrocchi), Adriatica, Bari 1969.
- Prospettive e problemi. Antologia della critica letteraria e della civiltà italiana (con R. Macchioni Jodi), 8 voll., D’Anna, Messina-Firenze 1971.
- La letteratura verista, Nuova ERI, Torino 1972.
- Manzoni. Storia e Provvidenza, Bonacci, Roma 1974.
- Le ceneri al vento, Mondadori, Milano 1977.
- Il visibile parlare. Saggi sui rapporti fra lettere e arti, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1978.
- Le mani pure, Rizzoli, Milano 1979.
- Le mura del cielo, Rizzoli, Milano 1981.
- Le notti di Toledo, Rusconi, Milano 1983.
- Manzoni, Rusconi, Milano 1986.
- Trenta denari, Rusconi, Milano 1986.
- D’Annunzio, Rusconi, Milano 1988.
- La parola pittorica, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1990.
- L’anello, Rusconi, Milano 1990.
- Storie bibliche d’amore e di morte, Edizioni Paoline 1990.
- La straniera, Mondadori, Milano 1991.
- L’angelo rosso, Piemme, Casale Monferrato 1992.
- Tempesta di marzo, Piemme, Casale Monferrato 1993.
- Torquato Tasso. L’anima e l’avventura, Piemme, Casale Monferrato 1995.
- Come il tragitto di una stella. Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine, Edizioni S. Paolo, Milano 1997.
UN DOSSIER su FERRUCCIO ULIVI (da “Letture“)
|
FERRUCCIO ULIVI |
|||
di Marco Beck |
||||
Cattedratico di letteratura italiana, Ferruccio Ulivi si rivelò raffinato narratore in età già matura. I suoi romanzi e racconti, di alto profilo morale e stilistico, ritraggono scrittori, santi, personaggi biblici di fronte al Mistero. In una delle sue chiaroveggenti pagine autobiografiche, il filosofo cattolico Jean Guitton (1901-1999), inesausto ricercatore della Verità ben oltre il traguardo dei novant’anni, ci propone una singolare riflessione: quanto più equilibrata, saggia, in sintesi felice risulterebbe la vita umana se l’esperienza, anziché essere un sofferto e talora inutile patrimonio della vecchiaia, ci fosse messa a disposizione, per grazia divina, fin dalla giovinezza. Ferruccio Ulivi, critico e saggista, studioso di storia dell’arte, professore di lingua e letteratura italiana in vari atenei, giunto alla soglia dei sessantacinque anni, ha compiuto un “prodigio” intellettuale che sarebbe piaciuto a Guitton. Ha messo a frutto l’esperienza, la sapienza, la dottrina accumulate in decenni di studio e d’insegnamento per alimentare una vocazione letteraria sorretta da un élan vital, da uno spirito di giovinezza destinato a lambire – come nel caso di Guitton – la sponda della novantina; per far zampillare una vena narrativa che, a lungo latente, si è rivelata solo a partire dal 1977, con la pubblicazione dei quattro racconti confluiti in E le ceneri al vento. Senza peraltro abbandonare le ricognizioni specialistiche connesse all’impegno accademico. Ma rendendole complementari, in una sorta di scambio interattivo, con il nuovo filone in cui, sempre nel solco degli interessi egemoni per gli autori e i capolavori prediletti, lo strumento soggettivo dell’immaginazione prevale sulle ragioni oggettive della storia e della filologia. Ragioni che, tuttavia, vengono sempre rispettate. Anche là dove si tinge di surreale, di arcano, di soprannaturale, la fantasia di Ulivi non arriva mai a violentare la logica. Di fronte all’umanamente incomprensibile, nell’alternativa guittoniana tra l’assurdo e il mistero, lo scrittore sceglie la seconda soluzione come arduo ma meditato approdo di fede, lontanissimo dall’irrazionalità del fideismo: ormeggio al quale lo conduce «un laicismo liberale che si sostanzia dei valori più alti del cristianesimo» (G. Scarsi).
Un talento dissotterrato La svolta intervenuta nella vita e nell’attività dell’ultrasessantenne docente universitario potrebbe essere quindi caratterizzata come una “metatesi quantitativa”: un progressivo trasferimento di pensieri, progetti, energie dalla sfera del negotium professionale a quella del libero otium, in un regime – comunque – di perdurante osmosi tra le due dimensioni. Era come se, a un certo punto, Ulivi avesse intrapreso un viaggio interiore verso una zona segreta della sua identità umana e culturale, dov’era custodito un talento narrativo che, una volta dissotterrato, non si sarebbe più potuto riseppellire ma avrebbe continuato a fruttificare sino all’ultima (o penultima) giornata terrena. C’è una forte, simbolica identificazione tra scrittore e personaggio proprio nel racconto (La tenda) che, aprendo la tetralogia di E le ceneri al vento, segna l’esordio ufficiale di Ulivi nel campo della narrativa. Quel gentiluomo scozzese che dalla sua abitazione di campagna gremita di libri scende in Italia per dare un volto alla sua corrispondente epistolare, Paolina Leopardi, sorella del defunto poeta Giacomo, e s’immerge nelle penombre, nelle ambiguità, negli enigmi dell’ambiente recanatese, è un trasparente alter ego del narratore che decide d’investire le nozioni maturate attraverso le letture dei classici in indagini di respiro romanzesco sui propriauctores e sui loro entourages, inquadrati nelle rispettive cornici storico-sociali. È, metaforicamente, l’attraversamento di un valico. Come il giovane avventuriero del secondo racconto delle Ceneri, anche Ulivi, una volta risalito il ripido versante della “sierra” artistico-letteraria, si affaccia sul vasto altopiano della libertà: l’altopiano della creatività senza vincoli o restrizioni, dell’apertura all’immaginazione, del corpo a corpo con uomini di lettere fatti rivivere come personaggi insieme ai loro stessi personaggi, con figure di santi, di eroi ed eroine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ogni maturo debutto nell’arte del narrare ha dietro di sé motivazioni e occasioni peculiari, irripetibili, intrecciate al percorso esistenziale. Se nel caso di Gesualdo Bufalino la tardiva rivelazione dipese dalla sua “oscurità” isolana, e in quello di Andrea Camilleri la professionalità del regista televisivo ha differito l’affermarsi dello scrittore indipendente, Ferruccio Ulivi doveva fare i conti con la totalizzante assiduità dei suoi impegni didattici, editoriali, pubblicistici; in una parola, con le pervasive esigenze della sua già prestigiosa carriera pubblica. Ripercorrendo la sua biografia e la sua bibliografia, comunque, un paio di elementi appaiono indiscutibili. Da un lato, risulta evidente che il suo senile abbraccio con la Musa della narrativa non era frutto di un estro estemporaneo o di un velleitario soprassalto, e neppure di un occasionale, divertito excursus extra moenia (si pensi, per esempio, alla terza sezione del Principe di Palagonia di Giovanni Macchia); bensì l’erompere di un’incoercibile necessità espressiva, di un’ispirazione del tutto connaturata. Dall’altro – e qui ci può illuminare un’intervista del 1981, un colloquio a mente e cuore aperti con Claudio Toscani – emerge che le radici del nuovo e più comunicativo linguaggio affondavano in anni relativamente remoti: in parte visibili, coincidenti con un gruppo di “operette” o “dialoghi” editi e inediti; in parte invisibili allo stesso Ulivi, in quanto annidate, secondo la sua testimonianza, «nel subconscio». Nitido spartiacque tra il “primo” e il “secondo” Ulivi resta, ad ogni buon conto, l’edizione mondadoriana (1977) di E le ceneri al vento. Il cui valore d’incunabolo rispetto alla successiva produzione letteraria del cattedratico è attestato anche dalle caratteristiche del terzo e del quarto racconto. Con Lo spettro, mettendo in scena un anziano Alessandro Manzoni, ancora tormentato da un’immaginaria ma non proprio implausibile rivelazione fattagli dalla madre moribonda («Tuo padre, non solo secondo il nome, ma secondo la natura, è don Pietro [Manzoni]»), Ulivi inaugura uno scomparto manzoniano che, dal 1991 al ’93, allineerà la trilogia formata da due romanzi, La straniera eTempesta di marzo, e dal racconto La quiete degli scrittori, pregiato tassello della raccolta L’angelo rosso. Mentre L’antiquario, oltre ad annunciare una virtuosistica perizia nella “visualizzazione” verbale dei dati pittorici, introduce di scorcio quel Torquato Tasso intorno al quale ruoterà, nel 1995, un denso romanzo biografico. La produzione saggistica Si potrebbe essere tentati da un paragone con le nozze di Cana nel Vangelo di Giovanni: le opere narrative di Ferruccio Ulivi assimilate alle sei giare di “vino buono” (quello derivante dal miracolo di Gesù) che sopraggiungono alla fine del banchetto. Ma è una tentazione da respingere. Perché il “vino” da lui servito in precedenza, lungo il suo fertile itinerario scientifico, non lo si può considerare – nel registro critico-saggistico – “meno buono” per il solo fatto di essere commisurato a un pubblico più ristretto, culturalmente qualificato, di specialisti, colleghi delle discipline umanistiche e studenti universitari. Di più: questo vino altrettanto buono, sebbene di gusto diverso, non si è mai esaurito, e Ulivi ha continuato a mescerlo ai suoi commensali anche durante la militanza in area narrativa. A partire dalla monografia del 1946 su Federigo Tozzi, la produzione saggistica dello studioso toscano rappresenta l’emanazione diretta del suo percorso professionale, disegnando a poco a poco una mappa fedele dell’evolversi e ampliarsi delle sue proiezioni culturali, via via che la carriera si snoda attraverso le tappe prima ministeriali, poi accademiche (Bari, Perugia, Roma). Ben presto si delineano due corsie preferenziali, che procedono in parallelo ma non senza frequenti intersezioni. La prima è quella dell’italianistica a tutto campo, con approfondimenti su periodi, tematiche e autori particolarmente congeniali; la seconda attraversa, sulla base di un metodo interdisciplinare che risente della lezione di Roberto Longhi, il territorio tanto fascinoso quanto poco frequentato dei rapporti fra lettere e arti. Come italianista, Ulivi non disdegna di rivolgere il suo sguardo penetrante, fin dall’inizio assistito da una prosa adamantina, verso aree marginali dei secoli XVIII-XIX, come testimoniano il saggio sulSettecento neoclassico e la curatela delle antologie dedicate allaLirica italiana dell’Ottocento, ai Poeti minori dell’Ottocento, ai Poeti della Scuola romana dell’Ottocento. Ma è soprattutto verso alcune figure eminenti della nostra storia letteraria che si dirigono le sue più documentate, appassionate indagini. Nell’Orsa Minore degli auctoresdi costante riferimento, la stella polare è, senza dubbio, Alessandro Manzoni. Dal Manzoni lirico del 1950 fino al saggio Dagherrotipo manzoniano, riapparso nel 2002, si succedono centinaia di pagine convergenti sul Gran Lombardo. Da specifiche prospettive attinenti alla poetica e alla tecnica compositiva del capolavoro, al “sentimento del tempo”, ai paesaggi e ai personaggi (questi ultimi analizzati anche in Figure e protagonisti dei “Promessi sposi”) il raggio visuale si allarga a più ampie planimetrie critiche in un paio di volumi degli anni ’60/’70, incentrati sui rapporti del Manzoni con il Romanticismo e sull’incrociarsi di storia e Provvidenza nella sua Weltanschauung.Duplice il coronamento di queste fatiche manzoniane: nel 1977 l’allestimento di un’edizione commentata dei Promessi sposi; nel 1986 la pubblicazione di una biografia in cui si sedimentano le “affinità elettive”, giustamente evidenziate da Giovanna Scarsi, «fra lo scrittore del rigore morale e lo studioso dallo stile di vita e di scrittura austero». Come astri della medesima costellazione vanno poi citati il Petrarca, il Boiardo, Gabriele d’Annunzio (rivisitato anche in una brillante chiave biografica) e, a un superiore livello nella gerarchia del “gusto”, Torquato Tasso, accompagnato con amorosa traiettoria dal saggio sul suo “manierismo”, del 1966, fino ai due contemporanei eventi editoriali del 1995: la cura integrale (con Marta Savini) delle Opere e la biografia romanzata che reca per sottotitolo L’anima e l’avventura. Si può dire, infine, che l’esegesi dantesca rappresenti, nello spartito critico-filologico del professor Ulivi, una sorta di “basso continuo”. Ulteriormente aggiornata, l’analisi dei rapporti fra la Commedia e le arti visive – in un’ottica che per erudizione e acume oltrepassa gli esiti conseguiti da Goethe, Auerbach, Sapegno, Panofsky – conferisce un’impronta di assoluta eccellenza persino al quasi postumo La poesia e la mirabile visione. E in effetti era già al centro, Dante, di un pilastro portante dell’edificio che Ulivi, concretizzando l’equivalenza oraziana ut pictura poesis (già adottata fin dal titolo, Poesia come pittura, in un volume del 1969), ha costruito nel 1978 intorno alla tematica “sinestetica” dell’intreccio fra pittura, scultura, musica e letteratura, in primis poesia: Il visibile parlare. Analogo carattere di ermeneutica incrociata fra arti e lettere presenta il successivo La parola pittorica (1990), che dall’interpretazione figurativa della Commedia procede, passando per il Rinascimento, verso personalità di artisti del Novecento. Complementare a questa ricerca di specularità artistico-letteraria è l’aggirarsi di Ulivi nell’hortus conclusus degli Scrittori d’arte: tale il titolo del corposo repertorio approntato nel 1995, con il quale si è chiuso un anello apertosi nel lontano 1953, quando vide la luce una prima Galleria di scrittori d’arte. Convocati da Ulivi, sfilano con brani scelti d’indole estetica geni del calibro di Leonardo e Michelangelo, pittori-biografi come Vasari, scultori come Canova, architetti come Palladio e, addentrandosi nel ’900, pittori-scrittori come De Chirico, scrittori-pittori come Soffici, critici militanti come Cecchi, Calvesi, Sgarbi e, impareggiabile corifeo, Roberto Longhi. Maestro nella strutturazione di antologie distillate dalla spremitura di estese, iridescenti letture e schedature, nel 1994 Ulivi ha innalzato, con la collaborazione di Marta Savini, un vero e proprio monumento alla tradizione letteraria d’ispirazione cristiana: Poesia religiosa italiana dalle origini al ’900, nientemeno che 144 “vetrine” dedicate ad altrettanti poeti, da Aurelio Ambrogio a Eugenio Mazzarella, per rendere conto, come ha segnalato I. A. Chiusano, del «luminoso, vivificante connubio tra fede (o fede cercata) e poesia (poesia trovata)». Notti oscure dell’anima In modo abbastanza sorprendente, Le mani pure (1979), il primo romanzo nell’arco della “seconda stagione” di Ulivi, quella appunto della sua giovanile senectus creativa, elegge a protagonista una problematica figura dell’antica storia romana, quel Marco Giunio Bruto, figlio adottivo di Cesare e capo della congiura anticesariana, che a Dante ispirò un’inappellabile condanna alla Giudecca dei traditori e a Shakespeare il ritratto di un freddo calcolatore. Estraneo a entrambi questi cliché, Ulivi scandaglia con lucida partecipazione umana la tormentata coscienza di Bruto. Il diagramma del suo incontro-scontro con la figura e con il retaggio di Cesare si sviluppa, tra le idi di marzo e la battaglia di Filippi, su due livelli: il confronto psicologico, venato di reciproca attrazione e repulsione, slitta simbolicamente verso il piano politico della contrapposizione fra il potere monarchico e l’ideale repubblicano. Bruto finisce col suicidarsi perché soccombe – osservava nel risvolto di copertina Mario Luzi – all’«angoscioso vorticare di ogni dubbio». Il romanzo successivo, Le mura del cielo (1981), sancisce la definitiva consacrazione di colui che Spagnoletti ha definito «narratore nell’ordine dell’anima». Volgendosi a Francesco d’Assisi, alla sua avventura umana e sovrumana, Ulivi entra nella dimensione del sacro; ma senza scivolare nelle insidie dell’agiografia, nemica della narrativa. «La vicenda storica» ha puntualizzato un critico d’eccezione, il gesuita Ferdinando Castelli, «serve da base per avventurarsi alla ricerca dell’anima profonda del protagonista: dei suoi tormenti interiori, della sua passione di fondo, del suo itinerario di fuoco. Dunque, non biografia romanzata, tanto meno racconto “edificante” sulla scia dei Fioretti; ma […] sforzo di cogliere il segreto di una lotta misteriosa e drammatica». Francesco combatte con Dio, che lo bracca senza tregua, per conquistarLo, e lasciarsi conquistare, al supremo livello della santità, della follia evangelica, della spoliazione e donazione totali. Lottando con l’Invisibile, il Poverello insegue la verità, il modello dell’amore di Cristo e una radicale libertà interiore che gli permetta, infine, di scalare le mura del cielo. E ancora oggi il suo umile eroismo c’insegna che ognuno di noi, se vuole sollevarsi da terra, non può esimersi dal combattimento spirituale. L’aura di una quête tra religiosa e cavalleresca pervade anche sei racconti concatenati, dalla Spagna del ’500 alla Scandinavia del ’900, in una sorta di “romanzo” e riuniti nel 1983 sotto il titolo del testo d’apertura, il più emblematico, quasi un apologo metafisico: La notte di Toledo. Nel buio di una notte come fuori del tempo e dello spazio, un ebreo spagnolo s’interroga sulla direzione da imprimere alla propria vita. Lo sbocco della crisi è impervio e tuttavia limpido: solo decifrando gli impalpabili segni divini celati nell’abisso della coscienza, l’uomo può pervenire all’incontro con “l’Unico”. Si dissolveranno allora le tenebre dell’anima, l’angoscia della solitudine, l’incubo dell’inappartenenza, la minaccia del nulla. Ma spetta al libero arbitrio di ciascuno decidere in quale momento far nascere l’alba della speranza. Al servizio di questa tesi Ulivi mobilita una scrittura avvolgente, uno «stile oscillante fra reale e surreale», o meglio «evocativo-surreale» (C. Di Biase). «Tradire per amare»: presentando Trenta denari (1986), il romanzo che Ulivi ha scolpito meditando sulla controversa figura di Giuda e sul suo complesso rapporto con Gesù, un finissimo lettore come Geno Pampaloni non esitava a sottolineare l’audace, paradossale «intuizione poetica del romanziere» nel ritrarre il traditore per antonomasia. Il bacio con cui l’Iscariota compie l’odiosa missione segreta affidatagli dal Sinedrio diventa, in questa prospettiva, la «fatale, irrimediabile rivelazione del suo amore» per il Cristo, impenetrabile depositario del mistero messianico. E alla «maledetta felicità del tradimento» si accompagna la disperata ammissione di un completo fallimento, la visione della propria vita naufragata in un «mare morto di peccati». Vangelo “apocrifo” brulicante di personaggi “canonici” rimodellati con sensibilità moderna (Pietro, Giovanni e gli altri apostoli, Maria madre di Gesù, la Maddalena, Giuseppe d’Arimatea…), Trenta denari affronta di petto i più elevati temi teologici ed etici, ponendo al centro la libertà dell’uomo nei confronti del proprio destino. Ma le maggiori suggestioni narrative scaturiscono da «un’osservazione millimetrica e affilata del quotidiano» (G. Amoroso). Di una felice ricerca d’ispirazione letteraria nei silenzi non meno che nelle parole della Sacra Scrittura, in quelle sue falde sotterranee dove può penetrare solo la sonda dell’immaginazione arroventata dalla fede, sono documento anche le Storie bibliche d’amore e di morte,edite nel 1990: nove racconti che sulla trama essenziale dei passi scritturali di riferimento innestano elementi di suspense, introspezioni psicologiche, pennellate paesaggistiche, privilegiando figure femminili quali Giuditta, Esther, Dalila, Betsabea, Salomè, Maria di Magdala. Volti di donne archetipiche, certamente. Ma in pari tempo, secondo la cifra distintiva di tutte le rivisitazioni o reinvenzioni uliviane, «volti reali, quotidiani, carnali, striati dal riso e dalle lacrime, dall’amore e dall’odio», come annota, nella sua autorevole presentazione del libro, Gianfranco Ravasi. Fa in un certo senso da contrappunto alle Storie bibliche un romanzo “laico” apparso nello stesso anno e contrassegnato da un titolo di enigmatica concisione: L’anello. Del tutto eccentrica rispetto ai due filoni (storico-letterario e storico-biblico) dominanti nella narrativa di Ulivi, la vicenda si dirama da una cornice sovietica, databile al 1950, per inscenare, a ondate di flashback, episodi svoltisi durante il secondo conflitto mondiale, sul fronte russo e poi soprattutto nelle ambigue pieghe dello spionaggio internazionale in varie città occidentali. Ne è interprete un alto funzionario ed ex agente dei servizi segreti, ligio all’ortodossia bolscevica ma non allineato sino al punto di sterilizzare i sentimenti e soffocare gl’interrogativi sul senso della vita. Prima della sua morte, uno studioso italiano viene da lui pregato di rintracciare in America l’ultima donna amata per consegnarle un anello, testimonianza del suo ricordo. La missione non avrà esito. Ma nell’animo dell’interlocutore la malinconica umanità di quel servitore di un regime sanguinario si staglierà al di sopra di ogni furore ideologico, di ogni orrore perpetrato dal moloch comunista. Tra Manzoni e san Giuseppe Come già anticipato, il triennio 1991-1993 vede una rigogliosa fioritura di testi narrativi nel giardino manzoniano di Ulivi. Sbocciano due romanzi, La straniera e Tempesta di marzo, intervallati da La quiete degli scrittori, racconto-dialogo (don Lisander a colloquio con un “reverendo”) della raccolta L’angelo rosso, dove ricorre di frequente – lungo un asse storico disteso da Boezio al Novecento – un modulo dialogico di sapore leopardiano. Protagonista della Straniera è il giovane poeta milanese alla ricerca della sua vera vocazione umana e letteraria. A strapparlo alle sue paralizzanti antinomie, tra cattolicità dell’infanzia e illuminismo dell’adolescenza, tra frequentazione dei salotti parigini e isolamento nella tenuta di Brusuglio, tra slanci dello spirito e crisi nervose, tra ambizioni letterarie e progetti coniugali, saranno due donne: la madre Giulia Beccaria, sagace consigliera, e la sposa, la soave Henriette Blondel, determinante nel prendere l’iniziativa di una conversione individuale e, al tempo stesso, di coppia. Non è invece tanto lo scrittore quanto il suo capolavoro a occupare il proscenio nel “metaromanzo” Tempesta di marzo. Balza subito in primo piano, infatti, lo scartafaccio dell’immaginaria Storia milanese del secolo XVII, fonte fittizia dei Promessi sposi. E il «romanzo sul romanzo» di Ulivi delinea una plausibilissima, suggestiva ricostruzione dei tratti “originali” con cui si sarebbero potuti presentare, allo sguardo del Manzoni intento alla lettura del manoscritto dell’Anonimo, personaggi ed episodi da lui “rielaborati” durante la triplice stesura del suo capo d’opera. Con lineamenti insieme vecchi e nuovi, per così dire pseudo-manzoniani, e talora persino con un inedito incremento di umanità, si avvicendano sulla scena, in un «clima visionario» (Chiusano), padre Cristoforo, don Rodrigo, Lucia, la Monaca di Monza, l’Innominato, il cardinale Federico. Straordinario, nell’epilogo, l’affondo di Ulivi nella coscienza turbata del romanziere al cospetto del Seicento e della propria responsabilità morale: «Riprodurre una società di pazzi, vigliacchi, ipocriti, fanatici, attestando pur sempre la santità della vita». Fino all’intuizione risolutiva: «È in quel nodo disperatamente romantico, il cuore, il nesso di tutto…». Anche se nell’anno stesso della morte uscì una quinta silloge di racconti, Il messaggio, contenente testi “sacri e profani” di notevole caratura (fra cui spiccano Il testimone e Il richiamo, omogenei alleStorie bibliche, ela struggente love story dal titolo ammiccante a Van Gogh, I girasoli), l’ultimo significativo prodotto della creatività sacro-profana di Ulivi resta il romanzo pubblicato nel 1997, vertice assoluto della sua ascesa al cielo della grande narrativa: Giuseppe di Nazareth: sogno, amore e solitudine. Congiungendo esprit de géometrie letterario ed esprit de finesse mistico, Ulivi si cala nell’anima di Giuseppe, si aggira nell’ambito della sua quotidianità, scruta la sua storia d’uomo semplice e giusto, di santo non eroico, dalla giovinezza celibataria alle nozze con Maria, dalla nascita di Gesù fino allo spegnersi del suo estremo soffio vitale. Liberamente rispettoso nei confronti dell’esegesi biblica, il romanziere fa invece strage degli stereotipi popolari sulla presunta mansuetudine, sulla taciturna pazienza del “vecchio” padre putativo. L’umiltà del falegname non esclude l’agitarsi in lui di passioni e sentimenti, non contraddice l’orgoglio legato alla consapevolezza di discendere dalla stirpe regale di David e di essere chiamato a una missione provvidenziale. Ma qual è, in concreto, il suo carisma, il suo destino? Anziché dissolversi, il mistero s’infittisce nella convivenza, nutrita d’intensi colloqui, con la moglie e il figlio: una distanza incolmabile lo separa da quei due adorabili “stranieri”. Solo alla fine il suo amore e la sua solitudine saranno solcati da un raggio di verità. Vedi alla voce: “solitudine” Nel riconsiderare sinotticamente i fili del lungo e del breve narrare di Ulivi, sorge spontaneo un interrogativo: condivideva anch’egli, nella carne e nello spirito, l’inquieta, a volte angosciosa, a volte amorosa solitudine dei suoi personaggi (da Bruto a Francesco, da Manzoni a Tasso, da Giuda a Giuseppe) di fronte agli imperscrutabili disegni di una Volontà onnipotente che sembra prevaricare sulla libertà della coscienza umana? Un’impressione di solitudine esistenziale nasceva, in effetti, andando a incontrare Ulivi nella “cella” del suo studio foderato di volumi e quadri, nel sancta sanctorum della sua silenziosa abitazione romana. Ma ben presto l’affabilità del suo eloquio, la premurosa ospitalità, l’amichevole pacatezza dei gesti facevano comprendere che, se di solitudine si trattava, era di qualità essenzialmente intellettuale, finalizzata alla concentrazione sui testi altrui e all’elaborazione dei propri: in un dialogo incessante con i viventi e con gli immortali. Feconda solitudine di professore e di scrittore, dunque. Con una punta, anche, di assorta, aristocratica solitudine spirituale che imparentava Ulivi, sub specie fidei, al “giansenista” Manzoni e ai “solitari” di Port-Royal. Sì, è probabile: se avesse fatto in tempo a scrivere ancora un libro, Blaise Pascal gli si sarebbe offerto come il soggetto ideale per un ritratto da dipingere con le parole.
|
Pingback: Il portale della cultura del Mugello » Lorini, Tebaldo. Arrigo Dreoni